Montagna interiore. Parte prima.

La capacità di vedere le montagne è interiore. Chi ha gli occhi, vede le montagne – si pensa correntemente – e si ritiene sia possibile a tutti, e tutti riescano a vedere le stesse cose. Falso. Assolutamente falso.
Quello che vedi tu, quello che vedo io, quello che vede la gente, sono cose diverse. Tutto dipende da quello che sei tu. Tutto dipende da quello che hai dentro. Tutto dipende da quello che vuoi essere, dal livello di umanità che vuoi conseguire.
Dal tipo di mondo in cui vivi, dal tipo di mondo in cui vuoi vivere, dalla consistenza effettiva delle tue azioni concrete.
Forse, se hai iniziato a cambiare realmente, potrai cominciare a vedere molte più cose, a vedere più lontano, a vedere anche tu, finalmente, le montagne.
Quando guardo le montagne vedo una promessa di libertà, una speranza di libertà. A volte questa possibilità si realizza, e l’universo interiore, e quello esteriore, si stringono in un abbraccio. I profumi: l’aria tersa; la fragranza del fieno; i mille aromi del sottobosco. Le visioni: le imponenti colonne viventi delle conifere; i picchi assolati e verticali; le praterie verdeggianti e serene. I suoni: il fischio delle marmotte; il sibilo del vento; il fragore del torrente.

Per altri, per alcuni, le montagne sono solo delle masse da spianare, perché sono troppo storte, troppo pendenti, con troppi massi fuori posto, con gobbe, spuntoni, ammassi informi, protuberanze. Con il SUV non si riesce ad andare. Che scomodità. Dunque occorre spianare, raddrizzare, allargare, mettere cemento dove è ripido, mettere i catarifrangenti a bordo strada, e poi spianare per fare un parcheggio, così comodo, e poi squarciare i boschi per fare “piste” per praticanti dello “spazzaneve” domenicale, e mettere cannoni per sparare neve e, infine, un magnifico “belvedere” in cemento, con il parapetto in acciaio inox.
A pensarci un momento, a pensarci bene, l’effetto finale somiglia molto alla periferia di Mestre. Zona “Auscian”. Il modello ideale di riferimento, la suprema Idea da imitare, pare proprio il parcheggio del centro commerciale “Auscian”.
Il mondo interiore diviene angusto, e pare somigliare alla schermata di un sito per acquisti on line, con il simbolo del “carrello” in alto a destra. Basta cliccare, inserire il numero della carta di credito.
E nel carrellino della spesa interiore “montana”, si ammucchiano cianfrusaglie varie: palle trasparenti che quando le giri cade la neve finta; biglietti per funivie perché ormai hai le gambe molli; settimane bianche omologate da sabato a sabato; selfie da cellulare scattati presso il cartello stradale del “Passo” con gli scarponi immacolati e con le braccia allargate e sullo sfondo una “montagna” (…ma non mi ricordo bene quale, aspetta che guardo il gps). Lacedel, Tofane, Mortisa, Bovisa, Mondragone, Marghera? Tutto così, alla rinfusa.
Pare stiano facendo a pezzi le montagne di Cortina d’Ampezzo: demoliscono la nostra casa comune, per un calcolo dal fiato corto, miope.
<I mondiali di sci alpino demoliscono le montagne della fata delle Dolomiti>, scrivono in questi giorni dalle colonne del sito di Mountain Wilderness (www.mountainwilderness.it). Una scelta perdente. Cortina spianata per l’invasione delle nuove locuste in forma umana.

C’è una piccola valle, invece. C’è un piccolo ponte in legno. Sotto, il torrente, che corre bianco. Alcune case antiche, con i muri massicci, le finestre minuscole, i fiori ai balconi. Metri 1.890. Solo gente a piedi, altri che pestano sui pedali delle Mtb, i più pigri su con i bimbi con le carrozzelle e i cavalli. I veicoli a motore non possono circolare, salvo qualche furgone che porta le provviste.
Se si vuole veramente imparare a vedere la montagna occorre, in primo luogo, un viaggio interiore, un viaggio come reale e significativa esperienza. Per questo il viaggio materiale sarà coerente, per creare risonanza tra dentro e fuori. Per questo occorre andare solo con i mezzi più leggeri a disposizione, con i mezzi con il minimo impatto ambientale, per salvare non solo la natura, ma salvare con essa la propria esperienza.
Si useranno i piedi, e si può pedalare con la bicicletta, con i muscoli e i polmoni. Si utilizzeranno i bus “AutoPostale”, quelli gialli, che ai tornanti muggiscono due note; si prenderanno i treni regionali, quelli dove portare la bicicletta.
Ho girato il video l’anno passato, alcuni giorni di vacanza. Per raggiungere la valle mi sono levato prima dell’alba, era buio, e i merli dormivano ancora. Ho raggiunto la stazione, sono salito su uno, due e tre treni, tutti regionali. Poi un autobus di linea, e mi sono fermato a pranzare all’elegante caffè vicino la stazione. Poi un “AutoPostale” giallo, a passare la frontiera, il naso un poco a guardare i boschi e i fienili che scorrono, un poco a dormicchiare, un poco a guardare se riesce davvero a passare tra un balcone in pietra e un muro. E poi su per i tornanti stretti, che si avvoltolano uno sopra l’altro, fino al passo. Poi, zaino in spalla, tutto sui piedi, venti minuti. Il rifugio.
Milleottocento metri, silenzio perfetto, fuori, di notte, si vede solo la Via Lattea.

 

La felicità come forza e levità

Il colore, la materialità scultorea della pianta, la presenza di un essere tra i più incantevoli. Posato con levità a succhiare il nettare della vita, in perfetta armonia con il suo ambiente, pennellata di una magica tavolozza. Tinta su tinta, tono su tono, sfumatura su sfumatura.

La felicità è lieve.

E’ uno stato di soddisfazione connesso alla propria situazione nel mondo. Pare – a guardare la fotografia – che questa farfalla possa dirsi soddisfatta della propria situazione nel mondo. La felicità è uno stato, e dunque relativamente stabile, e riesce a trovare il sentiero per affermarsi e mantenersi, pur in mezzo alle incertezze e alle angustie di una vita. E dunque è lieve, facile, leggera da portare.

Una conquista, comunque, non un regalo, come sempre quando si parla di cose importanti. Richiede un profondo e autentico lavoro interiore, in primo luogo, e una ricerca costante e paziente.

E’ una costruzione, l’edificazione della propria interiorità, della propria personalità, inserita e in armonia con il mondo, capace come una farfalla di riconoscere le semplici cose buone, la linfa da cui trarre alimento ed energia. E’ anche lotta, se necessario, perché capace di dire no – un no chiaro e deciso: alle lusinghe senza sostanza, alla immondizia ben confezionata che viene quotidianamente pubblicizzata e spacciata, e lodata dagli spot e dalle chiacchiere.

Perché sa dire si – un forte e limpido si – alle esperienze e alle cose che contano davvero, che sono salutari e autentiche.

Per questo occorre conquistare una chiara visione del mondo, e imparare a distinguere ciò che è essenziale e utile alla vita, pulsante e biologica, e ciò che è merce volgare, proposta per mungere le migliori energie del singolo, e spennare l’incauto e l’illuso di turno. Ci vuole dunque cervello e studio, per evitare la trappola.

La felicità è forte, proprio come una farfalla, perché è forza genuina, personale, fisica e mentale, di idee e muscoli. Le farfalle, alcune almeno, esprimono una forza veramente notevole, a dispetto dell’immagine comune di animaletto delicato e fragile.

La Vanessa cardui, conosciuta nelle isole britanniche come Painted Lady, ha una apertura alare di circa 5 centimetri, pesa pochi grammi, e quando le ombre dell’autunno si fanno prossime, spicca il volo e lascia le rive del Tamigi. Vola per centinaia e centinaia di chilometri, tappa dopo tappa, in un viaggio migratorio verso il soleggiato Sud, verso le calde regioni dell’Africa.

Questo è un esempio di genuina forza. La forza è leggera, non pesante.

Occorre un vero cambio di prospettiva, e spalancare gli occhi e le fibre della mente. Una rivoluzione di pensiero e di azione, è necessaria, che oltrepassi i luoghi comuni sedimentati nei secoli passati, e archivi definitivamente il Novecento come uno dei secoli più tragici della storia umana. La forza, la potenza, non è nella bomba di Hiroshima, e neppure nella centrale di Fukushima, schiantata da una esplosione, e neppure nell’esplosione quotidiana delle benzine e dei gasoli, dei fumi tossici dei Suv, dei Crossover, delle supercar e delle utilitarie.

La forza autentica è nelle ali di una farfalla. La forza autentica è nei piedi. Per scoprirlo basta camminare e pestare il suolo domestico, per capirlo basta pigiare sui pedali della propria bicicletta.

La felicità è forza e levità, e per spiccare il volo e sollevarsi dai lacci e dalle pastoie, conviene alleggerire il bagaglio, e liberarsi dei pesi e dei fardelli superflui. Conviene fuggire dalle trappole quotidiane, della routine del lavoro fatto solo per il denaro, del consumo forzato e del divertimento coatto. Conviene liberarsi dalla mania gravosa di comprare aggeggi, vestiti e cosette varie, e anzi iniziare a vendere – o magari regalare – quelle cose ancora utili abbandonate nei cassetti, negli armadi, nei magazzini e nelle soffitte.

Ogni settimana, ogni giorno possiamo liberarci di un peso, di un ingombro, di un impaccio, di una abitudine idiota: una azione di liberazione concreta, per la propria vita, per il proprio benessere, per trovare ancora forza e levità.

Liberarsi della zavorra per volare leggeri – per volare adesso.

 

* La foto è stata scattata sulle Alpi, a oltre 1800 metri di quota, e non conosco la specie di appartenenza della farfalla. Per la Vanessa cardui: “Round-trip across the Sahara: Afrotropical Painted Lady butterflies recolonize the Mediterranean in early spring.” Reperibile on line: https://royalsocietypublishing.org/doi/10.1098/rsbl.2018.0274

I fiumi scendevano a oriente

Leonard Clark atterrò all’aeroporto di Lima il 10 giugno 1946. Era a caccia di tesori. Con un equipaggiamento ridotto al minimo, con un solo compagno, in totale autosufficienza, si avventurò nella giungla scendendo dalle Ande peruviane. Cercava le sette mitiche città di cui parlavano i conquistadores spagnoli, le città dell’Eldorado, che nessuno aveva mai trovato. Aveva frequentato l’università di California, si era laureato. Cominciò a lavorare in una banca, ma furono solo delle parentesi: partì per il Borneo, viaggio per il mondo, si arruolò nei servizi segreti durante la seconda guerra mondiale e operò dietro le linee giapponesi in Cina, e infine la discesa per i fiumi e le foreste del Perù e del Brasile.

Ho incontrato la storia di Leonard Clark quando avevo 13 anni, frequentavo la seconda media. Una supplente di italiano, giovane e carina, ci aveva parlato della storia di questo esploratore e scrittore, e indicato il titolo del suo libro che raccontava i viaggi in Sud America. Comprai subito il volume – I fiumi scendevano a oriente – e mi immersi in un mondo totalmente nuovo e sconosciuto, ancora intatto, popolato da serpenti dal veleno mortale, da foreste primordiali, da genti ancora indipendenti e libere di vivere nella foresta, da temibili cacciatori di teste delle tribù Jívaro Huambiza.

La lettura di quel libro è stata una vera esperienza, una occasione per conoscere realtà e costumi totalmente altri, di viaggiare in maniera autentica – anche se non mi ero mosso da casa – perché il viaggio, in realtà, è innanzitutto un fatto intellettuale e interiore.

Quel mondo, oggi, non esiste più.

Nel frattempo la popolazione mondiale è triplicata. I viaggi “avventura” sono praticamente diventati un affare per agenzie di viaggi specializzate e, ormai, le aree veramente selvagge sono quasi del tutto sparite. Gli appetiti dei commercianti di legname, di governanti e funzionari, delle multinazionali dei settori minerario e petrolifero, degli allevatori di animali destinati a diventare polpette per le catene dei fast food, hanno portato alla distruzione di gran parte della foresta amazzonica. Per fare posto a coltivazioni di erbe impiegate come mangime per ingrassare le vacche.

I Chama, i Campa, i Jívaro, dove sono oggi? Quanti brandelli del loro mondo sono rimasti?

Frammenti di queste storie sono nel film Il sale della terra e le racconta Sebastião Salgado.