Un premio ambito. Vittoria!

Il giardino che ho realizzato è un gesto d’amore. E’ stato premiato, ed è un riconoscimento importante che sottolinea la validità della impostazione. Si tratta della targa assegnata ai “Giardini naturali”, che sono certificati tali e rispondono a una serie di requisiti.

Ecco il testo: Questo giardino è un paradiso per la natura! La sua gestione naturale favorisce la biodiversità: piante e animali selvatici indigeni vi trovano rifugio e ristoro. Per questo motivo Pro Natura ha premiato questo giardino con una farfalla.

E’ naturale perché gli alberi, gli arbusti e le siepi sono in grande prevalenza indigene o naturalizzate da secoli, perché il prato è costituito da erbe spontanee che crescono fino a fioritura, perché nessuna sostanza chimica viene impiegata nella parte destinata all’orto.

E’ un giardino di limitate dimensioni, in tutto circa 220 metri quadrati, ma che ospita stabilmente o viene visitato regolarmente da una moltitudine di animali. Le api, ad esempio, anche quelle selvatiche, trovano ampio pascolo per fare bottino. In stagione, sulle siepi fiorite, è un ronzare incessante di centinaia di esemplari. Le farfalle sono una delle presenze più visibili e colorate, e trovano alimento anche sul prato fiorito. La tosaerba a motore, che produce un baccano infernale, che ingurgita benzina e produce fumi tossici, giace abbandonata da più di dieci anni in un angolo del magazzino. Ho comperato una falce a mano, e tratto il filo con la pietra avanti e dietro, e poi con movimenti ampi e regolari passo sul prato, come usano ancora i contadini. Una volta all’anno, e mai sull’intera superficie. E’ importante falciarne solo una porzione alla volta, in maniera che sempre siano disponibili parti con le erbe alte. Gli steli tagliati rimangono poi sul posto, a fare da pacciamatura. In silenzio si falcia senza fretta, con sano movimento, con l’orgoglio di una attività indipendente, con la felicità di una azione di cui sono capace.

Alle volte alcune farfalle Vanessa Atalanta, coloratissime, vengono in visita al Calicanto fiorito in pieno inverno, a febbraio, quando a mezzogiorno il sole splende radioso.

Varie specie di coleotteri sono stanziali, come pure alcune di sirfidi e di ortotteri, e si distinguono i “grilli dei cespugli”, eleganti nella loro vivace livrea verde, accanto a qualche esemplare di comune cavalletta dei campi. In stagione fervono le attività di esemplari grandi e piccoli, dalle libellule in visita, alle lucertole che a decine si appostano sui muri, ai merli dal colore sobrio, fino alle colorate ghiandaie, o ai rondoni che sfrecciano in formazioni anche di 15 esemplari, e sonori sibilano a due metri sopra la testa. E poi, in volo o appollaiate nei pressi, eleganti gazze e, alle volte, cornacchie grigie.

Il piacere di stare nella natura dipende dalle qualità oggettive dell’ambiente, ma anche dalla capacità di vedere, di osservare, di prestare attenzione concentrata.

E’ il primo mese dell’anno 2022, e sarà un anno speciale. Nel giardino c’è forse spazio ancora per due piccoli alberi da frutto, autoctoni, perché il gusto delle mele del proprio orto è insuperabile, ma ancora devo misurare, e considerare, perché le piante hanno bisogno del loro spazio vitale.

Spazio di sicuro c’è per ampliare il giardino interiore, per le nuove conoscenze, per le nuove amicizie, per le relazioni significative. La nostra vita è nelle nostre mani, e possiamo lasciare crescere i doni della natura, e cogliere con dedizione le erbe salutari che germogliano nel nostro animo, e coltivare nel nostro intimo brolo le verdure e le piante più ricche e saporite. Sta a noi godere e far crescere il giardino della nostra mente, e tenere lontano le invidie, i rancori, i pensieri tossici, le brame servili, i desideri fasulli indotti dalla pressione sociale.

La qualità di un giardino interiore non si misura con il metro.

 

Buio

<E quindi uscimmo a riveder le stelle>. E’ l’ultimo verso dell’Inferno, e Dante e Virgilio escono all’aria aperta, a guadagnare sollievo. Ma non è giorno, non sono accolti da una luce intensa, da un sole abbagliante. E’ notte, e si vedono le stelle.

Oggi, in tanti luoghi, le stelle non si vedono più. Ci sono, sono al loro posto, ma non si vedono. A Milano, come in molte città della Pianura padana, la visione delle stelle è impedita dal riflesso delle lampade che, dal tramonto all’alba, stanno accese. Anche lontano dalle mura cittadine, spesso, risulta difficile vedere la stella polare, e a malapena si distingue il Grande Carro, e in parecchie occasioni neppure quello. Bisogna attendere notti terse, con l’aria mondata delle polveri sottili e dei vapori, per poter vedere alcune manciate di stelle.

Per vedere un vero cielo stellato, per vedere la Via Lattea, per capire cosa significa una galassia, è necessario salire in quota, andare in vallette di montagna a 1.800 metri, lontani dai villaggi e dalle città alpine abbagliate dalle luci.

Probabilmente ci sono persone, in Italia, che non hanno mai visto la Via Lattea.

E’ una esperienza, la visione della Via Lattea, non la si conoscere per sentito dire, non è sufficiente andare a cercare un video sul web.

Dal tramonto all’alba, ogni notte, feriale e festiva, i Comuni spendono il denaro dei contribuenti accendendo luci bianche, gialle e arancioni. Per illuminare cosa? Viuzze secondarie dove, nel cuore della notte, non passa praticamente nessuno; sentieri di parchi pubblici che, attenzione, non sono accessibili, perché alla sera i cancelli vengono sbarrati. Cancelli chiusi e robusta recinzione, parchi ovviamente deserti, luci accese tutta la notte.

Dove non arrivano le luci piazzate dagli impiegati comunali, arrivano i privati. Villetta, scoperto, quindici metri quadrati di erbetta verde, quindici di marciapiede, quattro, cinque, sei lampade, accese, tutta la notte.

La lampadina, una invenzione utile – non è questo il punto in discussione – piazzata in alti lampioni per illuminare a giorno, da gennaio a dicembre, con pioggia e con sereno, tutte le notti, i parcheggi vuoti dei cimiteri.

E’ questa la buona amministrazione della cosa pubblica?

Per parlare chiaro: milioni di lampadine accese a illuminare i gatti e i grilli, consumano se stesse, in primo luogo – e significa inquinare per produrle, distribuirle, montarle, smontarle, smaltirle – e consumano energia elettrica – e significa centrali elettriche che producono, direttamente e indirettamente, tonnellate e tonnellate di gas serra e di gas tossici.

Il buio è forse un nemico da snidare, perseguitare e distruggere in ogni dove, bombardato da fari allo xeno, lampade a led, e vecchi tubi al neon; oppure è un bene di immenso valore, da conoscere, apprezzare, coltivare, amare?

Il buio è necessario, il buio ha valore, il buio è importante.

Il giorno, inondato di sole, caldo, luminoso, può essere compreso solo a partire dalla notte, fresca, ricca di stelle, pianeti e lune falcate e, soprattutto, buia.

Il buio offre doni speciali a chi lo sa comprendere, a chi ha superato le infantili paure del babau, a chi ha superato e compreso il reale significato di una società <24/7>, fatta di schiavi che sgobbano 24 ore su 24 agganciati alle loro macchine.

<<Il buio ci serve per pensare, ed è qui che il suo sapere risuona con maggior vigore: per concentrarci, entrare in rapporto con il nostro centro>> scrive Francesca Rigotti, filosofa, in un libro di piccole dimensioni, e spiega i danni di un mondo sovrailluminato, e la necessità di mantenere la distinzione tra giorno e notte, per dare senso alle ore con il sole e alle ore con la luna.

Buio.

 

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Il presente, il futuro

Domande e risposte su presente e futuro, su normalità e felicità. Perché il 2020 non è un anno normale.

E’ un video.

Per vederlo, basta cliccare sul link.

I commenti possono essere inseriti su questa pagina, cliccando il fumetto o la scritta in basso.

https://vimeo.com/422404421

 

Camminare

Un fienile, prati curati e falciati regolarmente, boschi che salgono per le pendici di un monte, un sentiero erboso che conduce dove i passi spingono.

Camminare per trovare se stessi, per sentire di essere, ed essere, uomini (e donne) interi ben piantati sopra ai propri piedi, ben saldi sulle gambe.

Per conoscere il mondo occorre pestarlo con i propri piedi, e sentire la fatica nei muscoli, e fiutare l’aria aperta dei campi, dei prati e dei boschi. E sedere sotto un castagno, e raccogliere i ricci carichi di frutti maturi, da arrostire sul fuoco in una sera d’autunno, e mangiarli scottandosi le dita.

Camminare con agio, con la libertà interiore e serena di chi sa sollevarsi sopra le nebbie grigie delle vie cittadine, e sciogliersi dalle pastoie delle trite questioni domestiche, senza pungolo di faccenda quotidiana.

Perché sa andare leggero come una farfalla, gentile come un passero, elevato come un’aquila sopra un panorama di vette, e laghi e foreste verdeggianti. Basta uscire dalle porte della città, e spingersi per i tratturi che menano per i campi, e avventurarsi per sentieri ombrosi che entrano nel fitto di boschetti selvatici. In un raggio di dieci chilometri si possono scoprire mondi incantati, abitati dalla volpe e dalla lepre, dalla ghiandaia e dalla gazza.

Vorrei, nei miei vagabondaggi, far ritorno a me stesso – scrive Henry David Thoreau in un piccolo libro ricco di umanità, di semplicità, di libertà, Camminare.

 

Terre selvagge – Wilderness

Lägh dal Lunghin, metri 2490 sul livello del mare. Si sale al lago dal passo del Maloja, 690 metri più in basso – servito da frequenti e comodi autobus di linea – con una agevole camminata di due ore. Ho fatto il bagno, nuotando a tutta forza per un paio di minuti, vicino a riva. Anche in piena estate l’acqua è fredda, molto fredda.
Per entrare in acqua è sufficiente volontà e decisione, si cammina senza tentennamenti fino a quando rimane fuori solo la testa. E bracciate a volontà, a tutta. Poi subito fuori, ad asciugarsi, a togliere il costume da bagno e rimettere camicia e maglione.
E’ una esperienza, che posso ricordare con piacere, ed è totalmente mia, senza orpelli, senza aggiunta di apparati tecnici, senza il contributo determinante di altri, realizzata con le esclusive forze a mia disposizione.
Poi su, verso il Pass Lunghin.
Due camminatori in tutto. Una valle isolata. Silenzio. Perfetto silenzio.
In basso, pochi puntini appena visibili, alcune capre nere che brucano libere giocando e saltando per i sassi.
Nessun confine, nessuna recinzione, solo una vaga traccia di sentiero. Una traccia minimale, perfettamente naturale, perché lasciata dagli uomini nel loro essere degli animali bipedi, che come gli altri segnano una pista scavata solo dall’uso.
Due piedi, quattro zampe con zoccoli in qualche savana, sono capaci di pestare e portare a destinazione, o a spasso, per il puro piacere di andare.
Il fascino delle terre selvagge – della wilderness – è tutta in questa possibilità di vivere esperienze autentiche: un ambiente non compromesso dalle attività umane, e un essere umano che, nella sua essenziale fisicità e con la sua mente, si decide a fare una esperienza di immersione nella natura.
Questa esperienza è possibile solo se esistono entrambe le condizioni: un ambiente ancora praticamente allo stato naturale; e una persona che cerca di conoscere il mondo senza ansia, senza ninnoli e accessori, senza fretta.