Preferisco restare a casa

Nel corso di una conversazione – in riferimento ad un personaggio, ad un evento e al suo valore nel contesto della vita – un giovane commentava concludendo con enfasi: << Ma è andato in elicottero! >>. Il senso era chiaro: il fatto di andare in elicottero rappresentava un elemento rilevante, degno di considerazione, in quanto l’andare con quel mezzo specifico costituiva un valore intrinseco, aggiungeva un evidente valore alla cosa. Andare in un luogo con un elicottero pareva decisamente migliore, superiore, e dunque preferibile, che andare a piedi. Chi viaggiava in elicottero era un “Vip”, qualcosa di diverso, pareva dire il giovane con il suo commento.

Cosa ammirava quel giovane, effettivamente, in chi si sposta in elicottero? Forse la quantità di denaro a disposizione, e dunque la capacità di procurarsi cose costose, e la possibilità di riempire di oggetti case e magazzini. Forse ammirava la stessa ammirazione che suscita chi possiede molto denaro, e dunque apprezzava il plauso della folla, che innalza lodi e invidia.

Ma uno sciocco, anche se accomodato a bordo di una costosa scatola volante, diventa forse meno sciocco di quando stava con i piedi ben calcati per terra? Forse l’ammirazione si rivolgeva al fatto che il bipede in volo può spostarsi a gran velocità, a 200, a 300 chilometri orari, e dunque può coprire grandi distanze in poco tempo, e disegnare il percorso per la rotta più breve, e arrivare prima a destinazione.

Eppure, uno stolto che viaggia a 300 chilometri orari, smette per ciò stesso di essere stolto? Più modestamente, riesce almeno un poco a colmare la lacuna, ed essere un poco meno stolto di prima? La differenza tra uno stolto e un savio sarebbe, dunque, solo una questione di velocità, così che uno stupido che viaggia in aereo, poniamo, a 1.000 chilometri orari, di botto e senza sforzo diventerebbe, per magia, qualcosa di diverso.

Pare di poterlo escludere.

Un esemplare umano, rimane sempre lo stesso esemplare umano, identico identico, sia che cammini per il sentiero di montagna a 5 chilometri orari, sia che passi a 300 chilometri orari a bordo di un costoso treno ad alta velocità. O a bordo di un elicottero.

Anzi, non occorre muoversi da casa, per essere quello che si è. Ad associarsi a questa millenaria tradizione di pensiero, a quanto pare, è anche un eclettico artista, Rinus Van de Velde, che in questi giorni espone le sue opere al Kunstmuseum di Lucerna. Nel suo atelier costruisce installazioni, plastici in cartone che creano piccoli mondi paralleli entro i quali viaggiare con la fantasia, e che diventano set per i suoi film di animazione. La sua visione è racchiusa nel titolo stesso della mostra, in inglese – I’d rather stay at home – che si traduce in un – preferisco restare a casa.

L’ammirazione rivolta a mezzi meccanici di locomozione è forse solo una forma di alienazione, e si attribuisce una parte di quel valore che appartiene solo all’essere umano in quanto tale ad una cosa esterna, e si ammira il mezzo utilizzato – l’elicottero – perché è costoso, perché si sposta velocemente, perché sembra fornire un supplemento di potenza. Ma è pur sempre, e solo, una cosa, un congegno, un banale meccanismo senza vita e senza pensiero. Prima o poi finirà tra i rottami arrugginiti.

Ciò che è umano, e vivo, e capace, troppo spesso si aliena e si sottomette a ciò che è banale ferraglia, e si riduce dunque a meno di ferraglia.

Riconoscere la ferraglia ovunque si annidi, e spezzare le catene mentali fatte di ammirazione non autentica, e trovare in sé e fuori di sé ciò che effettivamente è umano, ciò che effettivamente ha valore.

Andare a piedi per misurare il mondo, andare a piedi per capire.

 

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Il centro del mio mondo

La vita fugge. Lo sapevano gli antichi, lo sappiamo noi oggi. Nulla è cambiato, e la sabbia continua a fluire giù per la clessidra, verso l’ampolla che sta sotto.

Due vie innanzi a noi. La prima, la via della dispersione. E’ la via di chi si arrende alla forza dei venti dominanti, e abbandona la presa, e vola via portato dal vento come una cartaccia gettata in strada. Vola di qua, vola di là, turbina, si ferma, striscia: obbedisce ai venti che soffiano, i venti della massa, i venti dei TG, i venti dei social, i venti delle lobby, i venti delle campagne promozionali, i venti degli sponsor. Segue il copione già scritto – magari senza averne chiara consapevolezza – e magari nella convinzione di essere libero e originale. Canarino in gabbia, canta per il padrone di turno. La vita si riduce a svolazzare di una frasca, senza alcuna direzione: produrre, produrre, produrre; consumare, consumare, consumare. Vita ridotta a mero sopravvivere per inerzia, senza alcun senso determinato e abbracciato, senza lotta alcuna, senza una visione, senza alcuna concentrazione.

La seconda via, invece, è la via della concentrazione.

Il centro del mio mondo sono io. Il creatore del mio mondo sono io. Ogni azione autentica ha radice vitale nella solidità e profondità della propria interiorità. Da coltivare, da coltivare ancora; con pazienza, con tenacia. E’ un tipo di coltivazione che unisce la massima attività possibile, che è sempre attività interiore, con la massima apparente assenza di movimento, ed è una attività ricca, vivificante, piacevole.

Chi la pratica consegue, giorno dopo giorno, una crescita effettiva, il vero e sano sviluppo, lo sviluppo delle migliori, essenziali, qualità umane. La concentrazione si ottiene mediante l’esercizio, con un allenamento costante, con sessioni quotidiane. Parlo della mia esperienza, di una esperienza personale – anche se ho letto pagine sull’argomento – e dunque non si tratta di un metodo codificato, ma della via che ho sperimentato come individuo e trovato salutare.

Ogni giorno, quando possibile al mattino, si dedica mezz’ora, alle volte anche di più, a stare soli con sé stessi, in un ambiente silenzioso, seduti comodamente, ad assaporare il fatto che si dispone di un giorno da vivere. In una prima modalità, si lascia libera la mente, e questa in qualche modo respira, si tonifica, e gli occhi possono essere chiusi, o anche aperti a contemplare un qualche oggetto.

Non si tratta di mettersi a fare piani per la giornata, al contrario, si tratta di lasciare spazio allo sguardo interiore, come quando in montagna ci si siede su una zolla erbosa, di fronte ad un panorama aperto, e si lascia spaziare lo sguardo attorno, libero di contemplare, e accarezza la valle in basso, l’orizzonte lontano, i ghiacciai scintillanti, le cime candide di neve.

Senza sforzo i pensieri fuggono via, e anzi li si lascia volare via lontano, come passeri molesti sempre disposti a saltellare e becchettare e baruffare per ogni briciola, e la mente si scopre sgombra, libera, e le nubi svaniscono pian piano, e si coglie il proprio respiro e la carezza lieve della brezza. Il silenzio delle cime riverbera allora dentro e fuori, e si sfiora un senso di pace, la visione di una vita libera, e leggera una scintilla di felicità.

 

Montagna interiore. Seconda parte.

Tofana de Rozes, metri 3.225. Previsioni del tempo eccellenti. Ricordo quella giornata, anni fa. Siamo in tre. Si comincia a salire per sentiero, su fino a quota 2.400 circa, dove inizia la via. Le mani sulla roccia, appiglio dopo appiglio, spingendo di gambe, lavorando di braccia. Mano che abbranca, altra mano che abbranca, piede, piede. Poi, ancora, mano, mano; piede, piede. Si sale, si sale. Appigli molto comodi, basta sapere andare, nessuna difficoltà particolare. Lunga, esposta. Sotto, la valle, è ormai 500 metri più in basso. Non è il caso di lasciare gli appigli. Si esce oltre quota 3.000 metri. Gli ultimi duecento metri di dislivello si salgono camminando curvi su per le rocce della cresta, facendo attenzione a dove si mettono i piedi, a non smuovere sassi, che in montagna rappresentano un bel pericolo.

La cima. Una ascensione di circa cinque ore. E’ passato mezzogiorno, non c’è l’ombra di una nube. Siamo rimasti a contemplare il mondo per quasi due ore, un sole che accecava, prima di iniziare a scendere per la via normale.

Ampezzo è duemila metri più in basso, nitida, potresti vedere la gente seduta nei caffè.

Ai tavolini, gomito a gomito, persone molto diverse, diverse dentro. Alcune che ieri sedevano al caffè, oggi sono in cima con noi. Hanno le braccia, hanno le gambe, hanno il cuore per salire abbrancati alla nuda roccia. Hanno la capacità, forse, di vedere le montagne, di sentirle in maniera autentica, con tutto il loro pericolo, tutta la loro rudezza, tutto il loro fascino.

Altre persone non saliranno mai su questa vetta, almeno non con le loro gambe, e dunque non sapranno mai cosa è questa montagna. Le loro pupille staranno magari fissate sulla cima, con un binocolo scruteranno le balze e la vetta, e noi attraverso il vetro saremo ancora figure umane che si ergono in piedi. Il loro occhio sarà sazio, forse, ma nessuna esperienza reale, effettiva, della Tofana de Rozes sarà mai patrimonio della loro mente.

Queste persone, forse, credono che le montagne siano “panorami”, e che sia sufficiente poter dire “ci sono stato”, e magari mostrare il “selfie” in buona compagnia, e pubblicarlo sui social. Forse pensano di sapere qualcosa delle montagne perché hanno pagato il biglietto della funivia che mena alla Tofana di Mezzo, e il loro grasso corporeo è stato trasportato a 3.000 metri di quota, o perché i loro arti hanno premuto l’acceleratore del loro motore, e le loro ossa hanno rombato fino alla porta del “Rifugio”. Ma l’uomo, ma la donna, non sono solo grasso e calcio, selfie e social.

Se sono qualcosa, sono mente, cuore e coraggio.

La Tofana de Rozes, metri 3.225 sul livello del mare, può essere salita da un escursionista capace, da un escursionista esperto e allenato, utilizzando la via normale sia per salire che per scendere. E’ un sentiero alpinistico (difficoltà EE), ma non presenta passaggi di arrampicata tali da richiedere corde e altre attrezzature, ma sono necessari assenza di vertigini e piede fermo. Sono naturalmente necessarie le attrezzature indispensabili per le escursioni ad alta quota. Nodo essenziale: le previsioni meteorologiche. In caso di perturbazioni, a quelle quote, ad agosto, nevica.

Si può raggiungere con un impatto ambientale minimo, senza muovere fumiganti autovetture o Suv, utilizzando la linea estiva di autobus che salgono da Cortina verso Passo Falzarego, e scendendo alla fermata a quota 1.700. Ci si può fermare per la notte presso il Rifugio Giussani, metri 2.580, e attaccare la via per la vetta il giorno dopo, di buon mattino.

Basta volerlo, si può fare. E ciascuno può scegliere una montagna alla propria portata, perché quello che conta è la autenticità della esperienza.

Chi è umano, veramente umano, sa che le cose importanti della vita, la capacità di vedere le montagne, non si possono comprare.

Chi è umano, veramente umano, sa che le cose importanti della vita, la capacità di vedere le montagne, si possono solo conquistare con la propria intelligenza, con lo studio, con il coraggio, con i piedi, con le mani.

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Foto: La via di salita. Particolare da una foto tratta dal sito ritornoao.wordpress.com/2018/08/12, distribuita con licenza CC-BY (Creative Commons Attribuzione 4.0 Internazionale).

Montagna interiore. Parte prima.

La capacità di vedere le montagne è interiore. Chi ha gli occhi, vede le montagne – si pensa correntemente – e si ritiene sia possibile a tutti, e tutti riescano a vedere le stesse cose. Falso. Assolutamente falso.
Quello che vedi tu, quello che vedo io, quello che vede la gente, sono cose diverse. Tutto dipende da quello che sei tu. Tutto dipende da quello che hai dentro. Tutto dipende da quello che vuoi essere, dal livello di umanità che vuoi conseguire.
Dal tipo di mondo in cui vivi, dal tipo di mondo in cui vuoi vivere, dalla consistenza effettiva delle tue azioni concrete.
Forse, se hai iniziato a cambiare realmente, potrai cominciare a vedere molte più cose, a vedere più lontano, a vedere anche tu, finalmente, le montagne.
Quando guardo le montagne vedo una promessa di libertà, una speranza di libertà. A volte questa possibilità si realizza, e l’universo interiore, e quello esteriore, si stringono in un abbraccio. I profumi: l’aria tersa; la fragranza del fieno; i mille aromi del sottobosco. Le visioni: le imponenti colonne viventi delle conifere; i picchi assolati e verticali; le praterie verdeggianti e serene. I suoni: il fischio delle marmotte; il sibilo del vento; il fragore del torrente.

Per altri, per alcuni, le montagne sono solo delle masse da spianare, perché sono troppo storte, troppo pendenti, con troppi massi fuori posto, con gobbe, spuntoni, ammassi informi, protuberanze. Con il SUV non si riesce ad andare. Che scomodità. Dunque occorre spianare, raddrizzare, allargare, mettere cemento dove è ripido, mettere i catarifrangenti a bordo strada, e poi spianare per fare un parcheggio, così comodo, e poi squarciare i boschi per fare “piste” per praticanti dello “spazzaneve” domenicale, e mettere cannoni per sparare neve e, infine, un magnifico “belvedere” in cemento, con il parapetto in acciaio inox.
A pensarci un momento, a pensarci bene, l’effetto finale somiglia molto alla periferia di Mestre. Zona “Auscian”. Il modello ideale di riferimento, la suprema Idea da imitare, pare proprio il parcheggio del centro commerciale “Auscian”.
Il mondo interiore diviene angusto, e pare somigliare alla schermata di un sito per acquisti on line, con il simbolo del “carrello” in alto a destra. Basta cliccare, inserire il numero della carta di credito.
E nel carrellino della spesa interiore “montana”, si ammucchiano cianfrusaglie varie: palle trasparenti che quando le giri cade la neve finta; biglietti per funivie perché ormai hai le gambe molli; settimane bianche omologate da sabato a sabato; selfie da cellulare scattati presso il cartello stradale del “Passo” con gli scarponi immacolati e con le braccia allargate e sullo sfondo una “montagna” (…ma non mi ricordo bene quale, aspetta che guardo il gps). Lacedel, Tofane, Mortisa, Bovisa, Mondragone, Marghera? Tutto così, alla rinfusa.
Pare stiano facendo a pezzi le montagne di Cortina d’Ampezzo: demoliscono la nostra casa comune, per un calcolo dal fiato corto, miope.
<I mondiali di sci alpino demoliscono le montagne della fata delle Dolomiti>, scrivono in questi giorni dalle colonne del sito di Mountain Wilderness (www.mountainwilderness.it). Una scelta perdente. Cortina spianata per l’invasione delle nuove locuste in forma umana.

C’è una piccola valle, invece. C’è un piccolo ponte in legno. Sotto, il torrente, che corre bianco. Alcune case antiche, con i muri massicci, le finestre minuscole, i fiori ai balconi. Metri 1.890. Solo gente a piedi, altri che pestano sui pedali delle Mtb, i più pigri su con i bimbi con le carrozzelle e i cavalli. I veicoli a motore non possono circolare, salvo qualche furgone che porta le provviste.
Se si vuole veramente imparare a vedere la montagna occorre, in primo luogo, un viaggio interiore, un viaggio come reale e significativa esperienza. Per questo il viaggio materiale sarà coerente, per creare risonanza tra dentro e fuori. Per questo occorre andare solo con i mezzi più leggeri a disposizione, con i mezzi con il minimo impatto ambientale, per salvare non solo la natura, ma salvare con essa la propria esperienza.
Si useranno i piedi, e si può pedalare con la bicicletta, con i muscoli e i polmoni. Si utilizzeranno i bus “AutoPostale”, quelli gialli, che ai tornanti muggiscono due note; si prenderanno i treni regionali, quelli dove portare la bicicletta.
Ho girato il video l’anno passato, alcuni giorni di vacanza. Per raggiungere la valle mi sono levato prima dell’alba, era buio, e i merli dormivano ancora. Ho raggiunto la stazione, sono salito su uno, due e tre treni, tutti regionali. Poi un autobus di linea, e mi sono fermato a pranzare all’elegante caffè vicino la stazione. Poi un “AutoPostale” giallo, a passare la frontiera, il naso un poco a guardare i boschi e i fienili che scorrono, un poco a dormicchiare, un poco a guardare se riesce davvero a passare tra un balcone in pietra e un muro. E poi su per i tornanti stretti, che si avvoltolano uno sopra l’altro, fino al passo. Poi, zaino in spalla, tutto sui piedi, venti minuti. Il rifugio.
Milleottocento metri, silenzio perfetto, fuori, di notte, si vede solo la Via Lattea.

 

Camminare

Un fienile, prati curati e falciati regolarmente, boschi che salgono per le pendici di un monte, un sentiero erboso che conduce dove i passi spingono.

Camminare per trovare se stessi, per sentire di essere, ed essere, uomini (e donne) interi ben piantati sopra ai propri piedi, ben saldi sulle gambe.

Per conoscere il mondo occorre pestarlo con i propri piedi, e sentire la fatica nei muscoli, e fiutare l’aria aperta dei campi, dei prati e dei boschi. E sedere sotto un castagno, e raccogliere i ricci carichi di frutti maturi, da arrostire sul fuoco in una sera d’autunno, e mangiarli scottandosi le dita.

Camminare con agio, con la libertà interiore e serena di chi sa sollevarsi sopra le nebbie grigie delle vie cittadine, e sciogliersi dalle pastoie delle trite questioni domestiche, senza pungolo di faccenda quotidiana.

Perché sa andare leggero come una farfalla, gentile come un passero, elevato come un’aquila sopra un panorama di vette, e laghi e foreste verdeggianti. Basta uscire dalle porte della città, e spingersi per i tratturi che menano per i campi, e avventurarsi per sentieri ombrosi che entrano nel fitto di boschetti selvatici. In un raggio di dieci chilometri si possono scoprire mondi incantati, abitati dalla volpe e dalla lepre, dalla ghiandaia e dalla gazza.

Vorrei, nei miei vagabondaggi, far ritorno a me stesso – scrive Henry David Thoreau in un piccolo libro ricco di umanità, di semplicità, di libertà, Camminare.

 

La gamba ed il pedale

La stazione ferroviaria di Calalzo si trova a 741 metri sul livello del mare. E’ una stazione di testa, dove ha termine una linea di montagna che sale da Vittorio Veneto e offre panorami su valli e boschi di conifere. Un buon numero di anni or sono, trovato un socio disposto a pedalare in salita, ci siamo lanciati ad esplorare il tracciato della dismessa linea ferroviaria Calalzo-Cortina-Dobbiaco. Avevo una mountain bike nuova di zecca, e l’ho caricata sul treno fino a Calalzo.

La ciclabile come la conosciamo oggi era ancora allo stato di progetto, e dunque il tracciato non era ufficialmente aperto al pubblico. Tra Valle di Cadore e San Vito si trattava di passare per gallerie senza illuminazione, di pedalare a volte su una massicciata con pietrisco grosso, di zigzagare tra arbusti e massi franati. Ad un certo punto il sedime era stato completamente invaso dai rovi e passare era letteralmente impossibile, così, per non tornare indietro, abbiamo dovuto calare le biciclette giù per la scarpata fino alla sede della strada statale, che correva alcuni metri più in basso.

Cortina d’Ampezzo, finalmente, ma il nostro obbiettivo era ben più ambizioso. Avevo montato una bagagliera a sbalzo, imbullonata direttamente sul tubo reggisella, e sopra era fissato saldamente uno zaino da montagna che pesava, almeno, 9 chili. Giacca a vento, vestiti di ricambio, scarponi, cibo, il necessario per passare una notte in rifugio. Così dopo Cortina, metri 1211, è iniziata la salita tosta entro il Parco naturale delle Dolomiti d’Ampezzo, su su fino al Rifugio Ra Stua e poi oltre, sudando come dannati, spremendo le energie fino al midollo, incontrando tratti con ghiaia grossa, fino alla Utia de Senes, il Rifugio Sennes, a quota 2116 metri sul livello del mare. Un dislivello di 1375 metri, tutti in salita.

Al Rifugio ci aspettavano altri soci della compagnia, e così, il giorno dopo, lasciata la MTB in rifugio e calzati gli scarponi, siamo saliti tutti per la via normale fino alla cima del Seekofel/Croda del Beco a 2.810 metri di quota.

Poi di nuovo giù al rifugio, caricata di nuovo la bicicletta, su in sella, e giù a rotolare rifacendo la strada del giorno prima: questa volta, finalmente, in discesa, a riprendere il treno per Venezia.

A distanza di anni posso ancora ricordare con piacere quella impresa, e la posso raccontare con soddisfazione, perché è stata progettata in piena autonomia e con il gusto della esplorazione di un tracciato che ancora non era stato sistemato e aperto. Una impresa di cui ancora ricordo la fatica, la sofferenza, la durezza della salita, tutta affrontata facendo appello esclusivamente alle personali energie, spingendo sui pedali di una MTB che pesava, a vuoto, circa 13 chili, e portava un bagaglio di 9.

In questi anni sono arrivate le E-Bike. Di fuori sembrano MTB come le altre, in alluminio, con corone e pignoni e pedali, ma si riconoscono per la notevole sezione dei tubi del telaio, che nascondono un consistente pacco di batterie e un potente motore elettrico. Bisogna comunque pedalare – mi dice un sostenitore delle mountain bike a trazione elettrica – e si deve risparmiare la carica delle batterie, che si spende quando necessita, quando la salita si fa lunga e ripida. Così – continua il ciclista a motore elettrico – anche un uomo maturo che potrebbe coprire al massimo 1.000 metri di dislivello, può oggi arrivare a toccare i 2.000 metri di dislivello, e coprire così distanze che eccedono sensibilmente la semplice portata delle sue energie personali.

A questo punto, però, sorge una domanda: che significa fare una esperienza autentica?

E’ chiaro che se stiamo parlando di un semplice mezzo di trasporto, un mezzo che semplicemente permette spostamenti nella vita di tutti i giorni, allora sicuramente la bicicletta elettrica rappresenta un mezzo che consente anche a persone di ottanta anni di spostarsi agevolmente in città, e di affrontare salite, e di muoversi liberamente a basso costo, e senza produrre rilevanti danni ambientali. Ma parliamo di persone di 80 anni suonati. Vedere uomini e donne appena maturi, oppure decisamente giovani, sfrecciare sulle strade facendo solo finta di pedalare – giusto perché altrimenti il motore elettrico non si attiva – lascia, come dire, piuttosto perplessi. Se specifiche necessità non impongono scelte obbligate – cioè malattie o peculiari condizioni – è chiaro che un sano esercizio fisico, una vera, autentica, paziente e robusta pedalata, giova immensamente a uomini e donne di tutte le età, ottantenni compresi.

Se poi parliamo di esperienze di tipo ludico o alpinistico-escursionistiche, oppure con una valenza “sportiva”, pare che il discorso si debba avviare su altri binari. In questo caso, quello che conta, quello che costituisce il nocciolo essenziale, quello che caratterizza da un punto di vista umano una esperienza autentica, è il poter dire con verità “l’ho fatto con le mie sole forze”, cioè, veramente, “l’ho fatto io”.

Il senso della esperienza che ho narrato all’inizio è tutto qui.

Se un uomo può superare solo 1.000 metri di dislivello, ebbene, accetti il suo limite, e copra solo 1.000 metri di dislivello, ma saranno veramente e autenticamente suoi, tutti, nessun metro escluso. Un uomo che con la bicicletta elettrificata riesca a superare 2.000 metri di dislivello non potrà andare a raccontarlo, perché non sarà in grado di distinguere quali metri li ha pedalati lui, faticando, e quali invece li ha percorsi il suo motore elettrico. Al più potrà fornire indicazioni sulla marca e la bontà delle batterie che ha comperato. Il valore della sua esperienza, dal punto di vista umano, è zero. Tanto varrebbe, a questo punto, dotarsi di un puro e semplice ciclomotore elettrico, banale, semplice, ma almeno onesto, pienamente onesto nel dichiarare la sua trazione a motore.

Per un uomo e per una donna è fondamentale non abdicare mai al proprio pieno ed essenziale potere umano fisico, al potere delle proprie gambe, al potere delle proprie braccia, al potere del proprio fiato naturale. E’ questione di consapevolezza piena, è questione di piena accettazione di sé e dei propri limiti fisici naturali.

E’ questione di etica.

P.S. Nella foto una veduta del Lägh da Cavloc, metri 1907. Questa estate padri quarantenni con figli dodicenni tutti a cavallo di mountain bike elettriche. Ma il passo del Maloja, dove transitano gli autopostali che salgono da Chiavenna e consentono il trasporto delle MTB, si trova meno di 150 metri più in basso, raggiungibile a piedi in meno di un’ora per strada forestale e con rampe pavimentate in cemento. Una passeggiata alla portata di un bambino sano.

Terre selvagge – Wilderness

Lägh dal Lunghin, metri 2490 sul livello del mare. Si sale al lago dal passo del Maloja, 690 metri più in basso – servito da frequenti e comodi autobus di linea – con una agevole camminata di due ore. Ho fatto il bagno, nuotando a tutta forza per un paio di minuti, vicino a riva. Anche in piena estate l’acqua è fredda, molto fredda.
Per entrare in acqua è sufficiente volontà e decisione, si cammina senza tentennamenti fino a quando rimane fuori solo la testa. E bracciate a volontà, a tutta. Poi subito fuori, ad asciugarsi, a togliere il costume da bagno e rimettere camicia e maglione.
E’ una esperienza, che posso ricordare con piacere, ed è totalmente mia, senza orpelli, senza aggiunta di apparati tecnici, senza il contributo determinante di altri, realizzata con le esclusive forze a mia disposizione.
Poi su, verso il Pass Lunghin.
Due camminatori in tutto. Una valle isolata. Silenzio. Perfetto silenzio.
In basso, pochi puntini appena visibili, alcune capre nere che brucano libere giocando e saltando per i sassi.
Nessun confine, nessuna recinzione, solo una vaga traccia di sentiero. Una traccia minimale, perfettamente naturale, perché lasciata dagli uomini nel loro essere degli animali bipedi, che come gli altri segnano una pista scavata solo dall’uso.
Due piedi, quattro zampe con zoccoli in qualche savana, sono capaci di pestare e portare a destinazione, o a spasso, per il puro piacere di andare.
Il fascino delle terre selvagge – della wilderness – è tutta in questa possibilità di vivere esperienze autentiche: un ambiente non compromesso dalle attività umane, e un essere umano che, nella sua essenziale fisicità e con la sua mente, si decide a fare una esperienza di immersione nella natura.
Questa esperienza è possibile solo se esistono entrambe le condizioni: un ambiente ancora praticamente allo stato naturale; e una persona che cerca di conoscere il mondo senza ansia, senza ninnoli e accessori, senza fretta.