Buio

<E quindi uscimmo a riveder le stelle>. E’ l’ultimo verso dell’Inferno, e Dante e Virgilio escono all’aria aperta, a guadagnare sollievo. Ma non è giorno, non sono accolti da una luce intensa, da un sole abbagliante. E’ notte, e si vedono le stelle.

Oggi, in tanti luoghi, le stelle non si vedono più. Ci sono, sono al loro posto, ma non si vedono. A Milano, come in molte città della Pianura padana, la visione delle stelle è impedita dal riflesso delle lampade che, dal tramonto all’alba, stanno accese. Anche lontano dalle mura cittadine, spesso, risulta difficile vedere la stella polare, e a malapena si distingue il Grande Carro, e in parecchie occasioni neppure quello. Bisogna attendere notti terse, con l’aria mondata delle polveri sottili e dei vapori, per poter vedere alcune manciate di stelle.

Per vedere un vero cielo stellato, per vedere la Via Lattea, per capire cosa significa una galassia, è necessario salire in quota, andare in vallette di montagna a 1.800 metri, lontani dai villaggi e dalle città alpine abbagliate dalle luci.

Probabilmente ci sono persone, in Italia, che non hanno mai visto la Via Lattea.

E’ una esperienza, la visione della Via Lattea, non la si conoscere per sentito dire, non è sufficiente andare a cercare un video sul web.

Dal tramonto all’alba, ogni notte, feriale e festiva, i Comuni spendono il denaro dei contribuenti accendendo luci bianche, gialle e arancioni. Per illuminare cosa? Viuzze secondarie dove, nel cuore della notte, non passa praticamente nessuno; sentieri di parchi pubblici che, attenzione, non sono accessibili, perché alla sera i cancelli vengono sbarrati. Cancelli chiusi e robusta recinzione, parchi ovviamente deserti, luci accese tutta la notte.

Dove non arrivano le luci piazzate dagli impiegati comunali, arrivano i privati. Villetta, scoperto, quindici metri quadrati di erbetta verde, quindici di marciapiede, quattro, cinque, sei lampade, accese, tutta la notte.

La lampadina, una invenzione utile – non è questo il punto in discussione – piazzata in alti lampioni per illuminare a giorno, da gennaio a dicembre, con pioggia e con sereno, tutte le notti, i parcheggi vuoti dei cimiteri.

E’ questa la buona amministrazione della cosa pubblica?

Per parlare chiaro: milioni di lampadine accese a illuminare i gatti e i grilli, consumano se stesse, in primo luogo – e significa inquinare per produrle, distribuirle, montarle, smontarle, smaltirle – e consumano energia elettrica – e significa centrali elettriche che producono, direttamente e indirettamente, tonnellate e tonnellate di gas serra e di gas tossici.

Il buio è forse un nemico da snidare, perseguitare e distruggere in ogni dove, bombardato da fari allo xeno, lampade a led, e vecchi tubi al neon; oppure è un bene di immenso valore, da conoscere, apprezzare, coltivare, amare?

Il buio è necessario, il buio ha valore, il buio è importante.

Il giorno, inondato di sole, caldo, luminoso, può essere compreso solo a partire dalla notte, fresca, ricca di stelle, pianeti e lune falcate e, soprattutto, buia.

Il buio offre doni speciali a chi lo sa comprendere, a chi ha superato le infantili paure del babau, a chi ha superato e compreso il reale significato di una società <24/7>, fatta di schiavi che sgobbano 24 ore su 24 agganciati alle loro macchine.

<<Il buio ci serve per pensare, ed è qui che il suo sapere risuona con maggior vigore: per concentrarci, entrare in rapporto con il nostro centro>> scrive Francesca Rigotti, filosofa, in un libro di piccole dimensioni, e spiega i danni di un mondo sovrailluminato, e la necessità di mantenere la distinzione tra giorno e notte, per dare senso alle ore con il sole e alle ore con la luna.

Buio.

 

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Montagna interiore. Seconda parte.

Tofana de Rozes, metri 3.225. Previsioni del tempo eccellenti. Ricordo quella giornata, anni fa. Siamo in tre. Si comincia a salire per sentiero, su fino a quota 2.400 circa, dove inizia la via. Le mani sulla roccia, appiglio dopo appiglio, spingendo di gambe, lavorando di braccia. Mano che abbranca, altra mano che abbranca, piede, piede. Poi, ancora, mano, mano; piede, piede. Si sale, si sale. Appigli molto comodi, basta sapere andare, nessuna difficoltà particolare. Lunga, esposta. Sotto, la valle, è ormai 500 metri più in basso. Non è il caso di lasciare gli appigli. Si esce oltre quota 3.000 metri. Gli ultimi duecento metri di dislivello si salgono camminando curvi su per le rocce della cresta, facendo attenzione a dove si mettono i piedi, a non smuovere sassi, che in montagna rappresentano un bel pericolo.

La cima. Una ascensione di circa cinque ore. E’ passato mezzogiorno, non c’è l’ombra di una nube. Siamo rimasti a contemplare il mondo per quasi due ore, un sole che accecava, prima di iniziare a scendere per la via normale.

Ampezzo è duemila metri più in basso, nitida, potresti vedere la gente seduta nei caffè.

Ai tavolini, gomito a gomito, persone molto diverse, diverse dentro. Alcune che ieri sedevano al caffè, oggi sono in cima con noi. Hanno le braccia, hanno le gambe, hanno il cuore per salire abbrancati alla nuda roccia. Hanno la capacità, forse, di vedere le montagne, di sentirle in maniera autentica, con tutto il loro pericolo, tutta la loro rudezza, tutto il loro fascino.

Altre persone non saliranno mai su questa vetta, almeno non con le loro gambe, e dunque non sapranno mai cosa è questa montagna. Le loro pupille staranno magari fissate sulla cima, con un binocolo scruteranno le balze e la vetta, e noi attraverso il vetro saremo ancora figure umane che si ergono in piedi. Il loro occhio sarà sazio, forse, ma nessuna esperienza reale, effettiva, della Tofana de Rozes sarà mai patrimonio della loro mente.

Queste persone, forse, credono che le montagne siano “panorami”, e che sia sufficiente poter dire “ci sono stato”, e magari mostrare il “selfie” in buona compagnia, e pubblicarlo sui social. Forse pensano di sapere qualcosa delle montagne perché hanno pagato il biglietto della funivia che mena alla Tofana di Mezzo, e il loro grasso corporeo è stato trasportato a 3.000 metri di quota, o perché i loro arti hanno premuto l’acceleratore del loro motore, e le loro ossa hanno rombato fino alla porta del “Rifugio”. Ma l’uomo, ma la donna, non sono solo grasso e calcio, selfie e social.

Se sono qualcosa, sono mente, cuore e coraggio.

La Tofana de Rozes, metri 3.225 sul livello del mare, può essere salita da un escursionista capace, da un escursionista esperto e allenato, utilizzando la via normale sia per salire che per scendere. E’ un sentiero alpinistico (difficoltà EE), ma non presenta passaggi di arrampicata tali da richiedere corde e altre attrezzature, ma sono necessari assenza di vertigini e piede fermo. Sono naturalmente necessarie le attrezzature indispensabili per le escursioni ad alta quota. Nodo essenziale: le previsioni meteorologiche. In caso di perturbazioni, a quelle quote, ad agosto, nevica.

Si può raggiungere con un impatto ambientale minimo, senza muovere fumiganti autovetture o Suv, utilizzando la linea estiva di autobus che salgono da Cortina verso Passo Falzarego, e scendendo alla fermata a quota 1.700. Ci si può fermare per la notte presso il Rifugio Giussani, metri 2.580, e attaccare la via per la vetta il giorno dopo, di buon mattino.

Basta volerlo, si può fare. E ciascuno può scegliere una montagna alla propria portata, perché quello che conta è la autenticità della esperienza.

Chi è umano, veramente umano, sa che le cose importanti della vita, la capacità di vedere le montagne, non si possono comprare.

Chi è umano, veramente umano, sa che le cose importanti della vita, la capacità di vedere le montagne, si possono solo conquistare con la propria intelligenza, con lo studio, con il coraggio, con i piedi, con le mani.

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Foto: La via di salita. Particolare da una foto tratta dal sito ritornoao.wordpress.com/2018/08/12, distribuita con licenza CC-BY (Creative Commons Attribuzione 4.0 Internazionale).

Terre selvagge – Wilderness

Lägh dal Lunghin, metri 2490 sul livello del mare. Si sale al lago dal passo del Maloja, 690 metri più in basso – servito da frequenti e comodi autobus di linea – con una agevole camminata di due ore. Ho fatto il bagno, nuotando a tutta forza per un paio di minuti, vicino a riva. Anche in piena estate l’acqua è fredda, molto fredda.
Per entrare in acqua è sufficiente volontà e decisione, si cammina senza tentennamenti fino a quando rimane fuori solo la testa. E bracciate a volontà, a tutta. Poi subito fuori, ad asciugarsi, a togliere il costume da bagno e rimettere camicia e maglione.
E’ una esperienza, che posso ricordare con piacere, ed è totalmente mia, senza orpelli, senza aggiunta di apparati tecnici, senza il contributo determinante di altri, realizzata con le esclusive forze a mia disposizione.
Poi su, verso il Pass Lunghin.
Due camminatori in tutto. Una valle isolata. Silenzio. Perfetto silenzio.
In basso, pochi puntini appena visibili, alcune capre nere che brucano libere giocando e saltando per i sassi.
Nessun confine, nessuna recinzione, solo una vaga traccia di sentiero. Una traccia minimale, perfettamente naturale, perché lasciata dagli uomini nel loro essere degli animali bipedi, che come gli altri segnano una pista scavata solo dall’uso.
Due piedi, quattro zampe con zoccoli in qualche savana, sono capaci di pestare e portare a destinazione, o a spasso, per il puro piacere di andare.
Il fascino delle terre selvagge – della wilderness – è tutta in questa possibilità di vivere esperienze autentiche: un ambiente non compromesso dalle attività umane, e un essere umano che, nella sua essenziale fisicità e con la sua mente, si decide a fare una esperienza di immersione nella natura.
Questa esperienza è possibile solo se esistono entrambe le condizioni: un ambiente ancora praticamente allo stato naturale; e una persona che cerca di conoscere il mondo senza ansia, senza ninnoli e accessori, senza fretta.