Il cibo che cresce da solo

Il mio piccolo orto selvaggio, ad agosto, ha prodotto più di 12 chili tra frutta e verdura. I soli lavori sono consistiti in una vangatura iniziale, nel distribuire un poco di stallatico in pellet, nel mettere a dimora 12 piantine acquistate, nel seminare alcune verdure, nel posizionare dei tutori, e aggiungere acqua solo quando indispensabile. Basta. Il resto è stato allungare una mano per cogliere.

Ogni tanto sono state tolte alcune erbe spontanee. Nella tarda primavera, al limite dell’orto, ai piedi dei cespugli di confine, sono apparse delle nuove piantine che non avevo seminato. A prima vista erbe non meglio identificate, forse da togliere, ma forse, dalla forma delle foglioline, delle piante ben note e molto interessanti. Come può essere? Da quando nascono da sole? Eppure. Ho voluto assecondare la natura, darle lo spazio che merita, ho atteso, per vedere bene cosa stava crescendo.

Si, erano loro, piante di pomodoro, germogliate senza essere state deliberatamente seminate. Oggi sono alte quasi due metri, e producono grappoli rossi carichi di pomodorini, gustosissimi, e ne offriranno fino a ottobre. Sono diventate la parte più interessante dell’orto, cresciute liberamente, a dire che il cibo cresce da solo. Basta saper riconoscere le foglie.

Fare un orto ha valore? E’ solo un fatto privato?

Mangiare cibo che cresce nel proprio orto è fonte di soddisfazione, soddisfazione di vedere crescere giorno per giorno piantine che hai seminato con le tue mani, cibo sano, senza alcun trattamento chimico. Lo si può servire in tavola fresco fresco, appena colto, con tutto il suo aroma. Andare a raccogliere è un piacere, una piccola passeggiata tra le erbe, senza dover fare la coda al supermercato, senza spendere un centesimo per i sacchetti, per la pellicola trasparente, per i vassoi in plastica. Zero immondizia.

L’orto è piccolo, occupa un angolo del giardino, e vangare sette metri quadri di terra è stato un sano esercizio fisico. Accanto cresce un fico, e fa tutto veramente da solo: fichi neri a profusione, dolcissimi.

Ma una attività così limitata e privata, tenere un orto, ha anche una portata sociale e, se diffusa, globale. Per avere un impatto globale è necessario agire concretamente e localmente. Subito.

Facciamo due conti. Spesso si agisce per abitudine, e raramente ci si mette a riflettere su ciò che significano i nostri comportamenti se proiettati su scala globale. Dodici chili di frutta e verdura, ad agosto, paiono poca cosa, ma proviamo a moltiplicarli per tutti gli italiani, che sono circa 60 milioni.

Una proiezione, ogni italiano coltiva o raccoglie 12 chili: fanno in totale 7.200.000 QUINTALI di frutta e verdura in meno trasportati su e giù per l’Italia.

Quando al supermercato vedo pomodori che vengono importati dall’Olanda – dico, l’Olanda, proprio il tipico paese Mediterraneo – mi vengono i brividi.

Piccola ricerca: un autoarticolato trasporta circa 250 quintali di merce, e dunque, per trasportare 7.200.000 quintali di verdura è necessario caricare 28.800 autoarticolati.

Mia cucina, Chirignago, mio orto, distanza due rampe di scale e 20 metri, a piedi. Distanza mia cucina, Chirignago, Amsterdam, Olanda, 1.297 chilometri (percorso tracciato da Google maps). Caliamoci nei panni di un camionista olandese, che saluta tutti e si mette a perdere una vita smarrito per autostrade, svincoli, aree di servizio, lavori in corso, pattuglie della polizia, viadotti in riparazione a corsia unica, tunnel nelle budella delle Alpi, ingorghi con code chilometriche, incidenti mortali con auto in fiamme, per cosa? Per portare pomodori. Dove, dove? In Italia?

Un autoarticolato, nella migliore delle ipotesi, percorre 3 chilometri con un litro di gasolio, e per viaggiare dall’Olanda ne deve bruciare 432 litri. Dodici chili di pomodori coltivati in Olanda, per ogni italiano, portano a bruciare 12.441.600 litri di gasolio.

Se compero pomodori coltivati in Olanda, divento anche io responsabile dell’intero processo, che implica il trasporto, e la conseguente produzione di monumentali masse di gas tossici e gas serra, sparsi per la Penisola. Un processo perverso.

Ma le abitudini si possono cambiare.

Ora è tempo di rimboccarsi le maniche, e preparare il terreno per le verdure autunnali.

 

Montagna interiore. Seconda parte.

Tofana de Rozes, metri 3.225. Previsioni del tempo eccellenti. Ricordo quella giornata, anni fa. Siamo in tre. Si comincia a salire per sentiero, su fino a quota 2.400 circa, dove inizia la via. Le mani sulla roccia, appiglio dopo appiglio, spingendo di gambe, lavorando di braccia. Mano che abbranca, altra mano che abbranca, piede, piede. Poi, ancora, mano, mano; piede, piede. Si sale, si sale. Appigli molto comodi, basta sapere andare, nessuna difficoltà particolare. Lunga, esposta. Sotto, la valle, è ormai 500 metri più in basso. Non è il caso di lasciare gli appigli. Si esce oltre quota 3.000 metri. Gli ultimi duecento metri di dislivello si salgono camminando curvi su per le rocce della cresta, facendo attenzione a dove si mettono i piedi, a non smuovere sassi, che in montagna rappresentano un bel pericolo.

La cima. Una ascensione di circa cinque ore. E’ passato mezzogiorno, non c’è l’ombra di una nube. Siamo rimasti a contemplare il mondo per quasi due ore, un sole che accecava, prima di iniziare a scendere per la via normale.

Ampezzo è duemila metri più in basso, nitida, potresti vedere la gente seduta nei caffè.

Ai tavolini, gomito a gomito, persone molto diverse, diverse dentro. Alcune che ieri sedevano al caffè, oggi sono in cima con noi. Hanno le braccia, hanno le gambe, hanno il cuore per salire abbrancati alla nuda roccia. Hanno la capacità, forse, di vedere le montagne, di sentirle in maniera autentica, con tutto il loro pericolo, tutta la loro rudezza, tutto il loro fascino.

Altre persone non saliranno mai su questa vetta, almeno non con le loro gambe, e dunque non sapranno mai cosa è questa montagna. Le loro pupille staranno magari fissate sulla cima, con un binocolo scruteranno le balze e la vetta, e noi attraverso il vetro saremo ancora figure umane che si ergono in piedi. Il loro occhio sarà sazio, forse, ma nessuna esperienza reale, effettiva, della Tofana de Rozes sarà mai patrimonio della loro mente.

Queste persone, forse, credono che le montagne siano “panorami”, e che sia sufficiente poter dire “ci sono stato”, e magari mostrare il “selfie” in buona compagnia, e pubblicarlo sui social. Forse pensano di sapere qualcosa delle montagne perché hanno pagato il biglietto della funivia che mena alla Tofana di Mezzo, e il loro grasso corporeo è stato trasportato a 3.000 metri di quota, o perché i loro arti hanno premuto l’acceleratore del loro motore, e le loro ossa hanno rombato fino alla porta del “Rifugio”. Ma l’uomo, ma la donna, non sono solo grasso e calcio, selfie e social.

Se sono qualcosa, sono mente, cuore e coraggio.

La Tofana de Rozes, metri 3.225 sul livello del mare, può essere salita da un escursionista capace, da un escursionista esperto e allenato, utilizzando la via normale sia per salire che per scendere. E’ un sentiero alpinistico (difficoltà EE), ma non presenta passaggi di arrampicata tali da richiedere corde e altre attrezzature, ma sono necessari assenza di vertigini e piede fermo. Sono naturalmente necessarie le attrezzature indispensabili per le escursioni ad alta quota. Nodo essenziale: le previsioni meteorologiche. In caso di perturbazioni, a quelle quote, ad agosto, nevica.

Si può raggiungere con un impatto ambientale minimo, senza muovere fumiganti autovetture o Suv, utilizzando la linea estiva di autobus che salgono da Cortina verso Passo Falzarego, e scendendo alla fermata a quota 1.700. Ci si può fermare per la notte presso il Rifugio Giussani, metri 2.580, e attaccare la via per la vetta il giorno dopo, di buon mattino.

Basta volerlo, si può fare. E ciascuno può scegliere una montagna alla propria portata, perché quello che conta è la autenticità della esperienza.

Chi è umano, veramente umano, sa che le cose importanti della vita, la capacità di vedere le montagne, non si possono comprare.

Chi è umano, veramente umano, sa che le cose importanti della vita, la capacità di vedere le montagne, si possono solo conquistare con la propria intelligenza, con lo studio, con il coraggio, con i piedi, con le mani.

Riproduzione riservata.

Foto: La via di salita. Particolare da una foto tratta dal sito ritornoao.wordpress.com/2018/08/12, distribuita con licenza CC-BY (Creative Commons Attribuzione 4.0 Internazionale).

Montagna interiore. Parte prima.

La capacità di vedere le montagne è interiore. Chi ha gli occhi, vede le montagne – si pensa correntemente – e si ritiene sia possibile a tutti, e tutti riescano a vedere le stesse cose. Falso. Assolutamente falso.
Quello che vedi tu, quello che vedo io, quello che vede la gente, sono cose diverse. Tutto dipende da quello che sei tu. Tutto dipende da quello che hai dentro. Tutto dipende da quello che vuoi essere, dal livello di umanità che vuoi conseguire.
Dal tipo di mondo in cui vivi, dal tipo di mondo in cui vuoi vivere, dalla consistenza effettiva delle tue azioni concrete.
Forse, se hai iniziato a cambiare realmente, potrai cominciare a vedere molte più cose, a vedere più lontano, a vedere anche tu, finalmente, le montagne.
Quando guardo le montagne vedo una promessa di libertà, una speranza di libertà. A volte questa possibilità si realizza, e l’universo interiore, e quello esteriore, si stringono in un abbraccio. I profumi: l’aria tersa; la fragranza del fieno; i mille aromi del sottobosco. Le visioni: le imponenti colonne viventi delle conifere; i picchi assolati e verticali; le praterie verdeggianti e serene. I suoni: il fischio delle marmotte; il sibilo del vento; il fragore del torrente.

Per altri, per alcuni, le montagne sono solo delle masse da spianare, perché sono troppo storte, troppo pendenti, con troppi massi fuori posto, con gobbe, spuntoni, ammassi informi, protuberanze. Con il SUV non si riesce ad andare. Che scomodità. Dunque occorre spianare, raddrizzare, allargare, mettere cemento dove è ripido, mettere i catarifrangenti a bordo strada, e poi spianare per fare un parcheggio, così comodo, e poi squarciare i boschi per fare “piste” per praticanti dello “spazzaneve” domenicale, e mettere cannoni per sparare neve e, infine, un magnifico “belvedere” in cemento, con il parapetto in acciaio inox.
A pensarci un momento, a pensarci bene, l’effetto finale somiglia molto alla periferia di Mestre. Zona “Auscian”. Il modello ideale di riferimento, la suprema Idea da imitare, pare proprio il parcheggio del centro commerciale “Auscian”.
Il mondo interiore diviene angusto, e pare somigliare alla schermata di un sito per acquisti on line, con il simbolo del “carrello” in alto a destra. Basta cliccare, inserire il numero della carta di credito.
E nel carrellino della spesa interiore “montana”, si ammucchiano cianfrusaglie varie: palle trasparenti che quando le giri cade la neve finta; biglietti per funivie perché ormai hai le gambe molli; settimane bianche omologate da sabato a sabato; selfie da cellulare scattati presso il cartello stradale del “Passo” con gli scarponi immacolati e con le braccia allargate e sullo sfondo una “montagna” (…ma non mi ricordo bene quale, aspetta che guardo il gps). Lacedel, Tofane, Mortisa, Bovisa, Mondragone, Marghera? Tutto così, alla rinfusa.
Pare stiano facendo a pezzi le montagne di Cortina d’Ampezzo: demoliscono la nostra casa comune, per un calcolo dal fiato corto, miope.
<I mondiali di sci alpino demoliscono le montagne della fata delle Dolomiti>, scrivono in questi giorni dalle colonne del sito di Mountain Wilderness (www.mountainwilderness.it). Una scelta perdente. Cortina spianata per l’invasione delle nuove locuste in forma umana.

C’è una piccola valle, invece. C’è un piccolo ponte in legno. Sotto, il torrente, che corre bianco. Alcune case antiche, con i muri massicci, le finestre minuscole, i fiori ai balconi. Metri 1.890. Solo gente a piedi, altri che pestano sui pedali delle Mtb, i più pigri su con i bimbi con le carrozzelle e i cavalli. I veicoli a motore non possono circolare, salvo qualche furgone che porta le provviste.
Se si vuole veramente imparare a vedere la montagna occorre, in primo luogo, un viaggio interiore, un viaggio come reale e significativa esperienza. Per questo il viaggio materiale sarà coerente, per creare risonanza tra dentro e fuori. Per questo occorre andare solo con i mezzi più leggeri a disposizione, con i mezzi con il minimo impatto ambientale, per salvare non solo la natura, ma salvare con essa la propria esperienza.
Si useranno i piedi, e si può pedalare con la bicicletta, con i muscoli e i polmoni. Si utilizzeranno i bus “AutoPostale”, quelli gialli, che ai tornanti muggiscono due note; si prenderanno i treni regionali, quelli dove portare la bicicletta.
Ho girato il video l’anno passato, alcuni giorni di vacanza. Per raggiungere la valle mi sono levato prima dell’alba, era buio, e i merli dormivano ancora. Ho raggiunto la stazione, sono salito su uno, due e tre treni, tutti regionali. Poi un autobus di linea, e mi sono fermato a pranzare all’elegante caffè vicino la stazione. Poi un “AutoPostale” giallo, a passare la frontiera, il naso un poco a guardare i boschi e i fienili che scorrono, un poco a dormicchiare, un poco a guardare se riesce davvero a passare tra un balcone in pietra e un muro. E poi su per i tornanti stretti, che si avvoltolano uno sopra l’altro, fino al passo. Poi, zaino in spalla, tutto sui piedi, venti minuti. Il rifugio.
Milleottocento metri, silenzio perfetto, fuori, di notte, si vede solo la Via Lattea.

 

Il presente, il futuro

Domande e risposte su presente e futuro, su normalità e felicità. Perché il 2020 non è un anno normale.

E’ un video.

Per vederlo, basta cliccare sul link.

I commenti possono essere inseriti su questa pagina, cliccando il fumetto o la scritta in basso.

https://vimeo.com/422404421

 

Davide Frisoli, ricordi, frammenti

Aprile 2020, la primavera è esplosa con la sua luce, i fiori, il ritorno dei rondoni. Eppure, un virus, in pochi giorni, troppo presto, ha portato via Davide.

Ricordo ancora l’orario del treno: 6.43. Alla stazione di Carpenedo – dove anche io vivevo in quegli anni, intorno al 2005 – a dicembre, a gennaio, a febbraio, era ancora notte fonda. In pratica, un’ora di viaggio. Si dormicchiava, si consultava qualche carta, si leggeva. Si dialogava. Poi il treno, fermata dopo fermata, si riempiva, affollato da studenti, da altri lavoratori. Davide ascoltava musica, con le cuffiette. A Portogruaro era uno dei primi a varcare il portone della scuola, prof di ruolo, abbonato delle Ferrovie da settembre a giugno.

Davide si era rimesso a lavorare sui libri, con lena, a frequentare corsi, e fruiva di tutte le opportunità e i permessi per approfondire lo studio della psicologia. Dopo alcuni anni di impegno, superati tutti gli esami e le prove, aveva conseguito i titoli per esercitare la professione. Ricordo una visita nel suo appartamento, a pochi passi da Piazza Ferretto, dove aveva allestito il suo studio.

Ci eravamo incrociati alcuni anni prima, fine anni Novanta, anche se non ricordo bene dove. Un corso, un convegno, o qualcosa di simile, non ricordo la occasione specifica.

Per viale Garibaldi, dalle parti della Feltrinelli, ci si incrociava, e a volte si faceva un tratto di strada assieme, si parlava di cose personali.

Si era sposato con una collega, una bambina, un bambino. Un pomeriggio era a passeggio con uno dei piccoli, dalle parti di via Palazzo, e mi spiegava che erano alla ricerca di un particolare modellino, una riproduzione accurata, circa 10 centimetri, perfettamente dipinta, di non ricordo quale animale. I figli ne facevano collezione. Il negozio di giocattoli era a pochi passi, e mi ha invitato a varcare con loro la soglia di quel favoloso deposito di meraviglie infantili. Ecco, il piccolo animale era lì, ad aspettare minuscole mani felici e grate.

Poi si era messo al lavoro per diventare dirigente scolastico. Era riuscito nell’impresa, e aveva lasciato la cattedra di insegnamento, e aveva anche dovuto lasciare ogni attività professionale nel campo della psicologia. Spendeva le sue competenze, la sua esperienza come insegnante, prima da precario, poi prof di ruolo, per ascoltare studenti, genitori, colleghi in cattedra.

Ricordo l’ultima conversazione, una mezz’ora forse, a novembre. Si parlava della catastrofe ambientale, della catastrofe climatica, della manifestazione di Friday For Future che anche a Venezia si era tenuta a settembre, di quel che si poteva e doveva fare. Vedi – mi diceva Davide, con occhi acuti – a casa ho mia figlia che è Greta Thunberg 2, e ci tiene tutti in riga.

Con Davide ci si è visti poco, ciascuno preso nei propri impegni, e per quantità le ore vissute gomito a gomito non sono poi molte. Ma il dialogo, tra gli esseri umani, è fatto di spessore e qualità, e la qualità prevale sulla mera quantità.

Ecco, il nome di Davide sta scritto nel migliore degli elenchi, nell’elenco degli amici.

 

Il futuro nelle tue mani

Un evento ha rivoluzionato la vita di miliardi di persone. Inatteso. Ha dato una scossa alla routine di una vita, ha fatto volare via illusorie certezze, ha tolto il velo a semplici verità fattuali. Credevamo di essere al sicuro. La Cina era lontana.

Ci siamo ritrovati in pochi giorni, tutti, nella condizione di reclusi in attesa di giudizio. Abbiamo insieme – e non più in ordine sparso, alla spicciolata – sperimentato sentimenti quali lo sgomento, la paura, l’angoscia, il senso di impotenza.

Questo potrebbe risolversi, per ciascuno, in un semplice evento traumatico, maledetto, che passerà sopra la spessa scorza senza lasciare alcuna traccia durevole. Acqua ghiacciata, che scivola via, passeggera.

Potrebbe invece rivelarsi – pur in mezzo alla tragedia, che tanti colpisce – una inaspettata occasione per mettere a fuoco la più pura ed essenziale verità, per guardare fisso negli occhi la realtà delle cose. Una occasione per crescere, per diventare, magari a ottanta anni suonati, adulti.

La quarantena ci toglie molte possibilità di azione, ma non ci toglie la possibilità di vivere ogni minuto decidendo la qualità della nostra vita.

La possibilità di vivere con intelligenza, sensibilità, dignità e, non ultimo, amore, ogni nostro minuto sta tutta intera nelle nostre mani.

Possiamo scegliere di non subire passivamente una imposizione piovuta quale fato avverso, ma di assumere consapevolmente il nostro destino e di sceglierlo, di trasformare un disastro in una preziosa opportunità. Possiamo, ancora e ancora, mettere a fuoco gli elementi fondamentali della nostra vita: la relazione tra la nostra vita, il tempo di cui disponiamo e che ancora ci rimane, quelli che consideriamo i beni reali ed essenziali, le connessioni che ci legano agli altri nostri simili.

Per tutti, l’occasione per conseguire un più elevato livello di veglia; per alcuni – forse – la fine di un lungo stregato sonno, la fine di un lungo letargo fatto di conformismo e consumismo, il risveglio magico in una nuova dimensione, in una nuova vita essenziale, autentica, sana.

Sotto le coperte, alle sei, alle sette, alle otto di un lunedì, ad aprile, lontano da autobus pigiati, da carrozze della metro affollate, da Airbus e Boeing acchiappati al volo, da code bibliche di veicoli sul Grande Raccordo Anulare, al calduccio, annusando un caffè, sorgeranno domande interessanti. Che significa “lavorare”? Svolgere un “lavoro” perfettamente inutile? Molestare gli altri per rifilare merci superflue? Sfiancarsi per “attività” idiote, devastanti, inquinanti, radicalmente dannose? Sfibrarsi per alimentare le mangiatoie dei parassiti e dei potenti? Truffare gli altri?

Per cosa? Per il denaro? Tutto qui?

Questi i giorni di un periodo memorabile, nelle nostre mani l’inizio di un nuovo mattino. L’alba gelida di una nuova era. Una nuova storia, il canto del gallo.

 

Post scriptum. Un primo elenco di storie, di riflessioni, di romanzi, per ampliare gli orizzonti, per alimentare il cuore e la mente, per cambiare prospettiva.

Erich Fromm, Avere o essere.

Serge Latouche, La scommessa della decrescita.

Epicuro, Lettera a Meneceo. Una lettera sulla felicità, sette pagine di valore assoluto. Segnalo l’introduzione e l’edizione curata da Carlo Diano.

Luciano Bianciardi, La vita agra.

Hermann Hesse, Demian.

Axel Munthe, La storia di San Michele. San Michele è il nome di un luogo, diventato la dimora dell’autore, un medico di grande umanità, uno scrittore. Tra le altre cose, narra la sua esperienza di medico durante l’epidemia di colera scoppiata a Napoli, fine Ottocento.

La felicità come forza e levità

Il colore, la materialità scultorea della pianta, la presenza di un essere tra i più incantevoli. Posato con levità a succhiare il nettare della vita, in perfetta armonia con il suo ambiente, pennellata di una magica tavolozza. Tinta su tinta, tono su tono, sfumatura su sfumatura.

La felicità è lieve.

E’ uno stato di soddisfazione connesso alla propria situazione nel mondo. Pare – a guardare la fotografia – che questa farfalla possa dirsi soddisfatta della propria situazione nel mondo. La felicità è uno stato, e dunque relativamente stabile, e riesce a trovare il sentiero per affermarsi e mantenersi, pur in mezzo alle incertezze e alle angustie di una vita. E dunque è lieve, facile, leggera da portare.

Una conquista, comunque, non un regalo, come sempre quando si parla di cose importanti. Richiede un profondo e autentico lavoro interiore, in primo luogo, e una ricerca costante e paziente.

E’ una costruzione, l’edificazione della propria interiorità, della propria personalità, inserita e in armonia con il mondo, capace come una farfalla di riconoscere le semplici cose buone, la linfa da cui trarre alimento ed energia. E’ anche lotta, se necessario, perché capace di dire no – un no chiaro e deciso: alle lusinghe senza sostanza, alla immondizia ben confezionata che viene quotidianamente pubblicizzata e spacciata, e lodata dagli spot e dalle chiacchiere.

Perché sa dire si – un forte e limpido si – alle esperienze e alle cose che contano davvero, che sono salutari e autentiche.

Per questo occorre conquistare una chiara visione del mondo, e imparare a distinguere ciò che è essenziale e utile alla vita, pulsante e biologica, e ciò che è merce volgare, proposta per mungere le migliori energie del singolo, e spennare l’incauto e l’illuso di turno. Ci vuole dunque cervello e studio, per evitare la trappola.

La felicità è forte, proprio come una farfalla, perché è forza genuina, personale, fisica e mentale, di idee e muscoli. Le farfalle, alcune almeno, esprimono una forza veramente notevole, a dispetto dell’immagine comune di animaletto delicato e fragile.

La Vanessa cardui, conosciuta nelle isole britanniche come Painted Lady, ha una apertura alare di circa 5 centimetri, pesa pochi grammi, e quando le ombre dell’autunno si fanno prossime, spicca il volo e lascia le rive del Tamigi. Vola per centinaia e centinaia di chilometri, tappa dopo tappa, in un viaggio migratorio verso il soleggiato Sud, verso le calde regioni dell’Africa.

Questo è un esempio di genuina forza. La forza è leggera, non pesante.

Occorre un vero cambio di prospettiva, e spalancare gli occhi e le fibre della mente. Una rivoluzione di pensiero e di azione, è necessaria, che oltrepassi i luoghi comuni sedimentati nei secoli passati, e archivi definitivamente il Novecento come uno dei secoli più tragici della storia umana. La forza, la potenza, non è nella bomba di Hiroshima, e neppure nella centrale di Fukushima, schiantata da una esplosione, e neppure nell’esplosione quotidiana delle benzine e dei gasoli, dei fumi tossici dei Suv, dei Crossover, delle supercar e delle utilitarie.

La forza autentica è nelle ali di una farfalla. La forza autentica è nei piedi. Per scoprirlo basta camminare e pestare il suolo domestico, per capirlo basta pigiare sui pedali della propria bicicletta.

La felicità è forza e levità, e per spiccare il volo e sollevarsi dai lacci e dalle pastoie, conviene alleggerire il bagaglio, e liberarsi dei pesi e dei fardelli superflui. Conviene fuggire dalle trappole quotidiane, della routine del lavoro fatto solo per il denaro, del consumo forzato e del divertimento coatto. Conviene liberarsi dalla mania gravosa di comprare aggeggi, vestiti e cosette varie, e anzi iniziare a vendere – o magari regalare – quelle cose ancora utili abbandonate nei cassetti, negli armadi, nei magazzini e nelle soffitte.

Ogni settimana, ogni giorno possiamo liberarci di un peso, di un ingombro, di un impaccio, di una abitudine idiota: una azione di liberazione concreta, per la propria vita, per il proprio benessere, per trovare ancora forza e levità.

Liberarsi della zavorra per volare leggeri – per volare adesso.

 

* La foto è stata scattata sulle Alpi, a oltre 1800 metri di quota, e non conosco la specie di appartenenza della farfalla. Per la Vanessa cardui: “Round-trip across the Sahara: Afrotropical Painted Lady butterflies recolonize the Mediterranean in early spring.” Reperibile on line: https://royalsocietypublishing.org/doi/10.1098/rsbl.2018.0274

2020. Bonus?

Quidquid facere te potest bonum tecum est. Quid tibi opus est ut sis bonus? Velle. –

Tutto ciò che ti può rendere “bonum” è in tuo possesso. Cosa ti occorre per essere “bonus”? Volerlo. –

E’ un passo di Seneca. Esprime una verità fondamentale. E’ una massima da tenere sotto gli occhi, da ripetere ogni giorno.

Ma cosa significa “bonus”? Molte cose, e anche oggi in italiano “buono” assume varie valenze. Può voler dire “buono; lieto; prospero”; ma anche indicare un concetto filosofico come “il bene”. Può significare “nobile”, a motivo dei natali; ma anche – e su questo intendo soffermarmi – indicare il possesso di qualità morali e intellettuali, che fanno essere un uomo “retto; onesto”, e, infine, “valente”.

Per essere un uomo, una donna, “valente”, non è dunque necessaria una nascita “nobile”, o il possedere una fortuna in beni materiali, perché ciascuno ha già tutto quello che occorre, e quel che serve ed è necessario allo scopo è già in suo “possesso”.

Volerlo.

Nessuno ci può obbligare a volere qualche cosa. Eppure, in molti modi, possiamo essere condotti anche noi, docilmente, alla greppia e all’abbeveratoio. Possiamo sentirci in qualche modo minacciati, direttamente o indirettamente, e la paura può condurre il nostro comportamento; oppure, al contrario, possiamo essere sedotti da rappresentazioni allettanti, da immagini che attirano con la forza della loro immediatezza, da video accattivanti dove sempre splende il sole e tutti sorridono e la musica è sempre quella giusta. Questi mezzi, l’intimidazione e la seduzione, sono generalmente utilizzati nelle società occidentali per condurre docilmente le menti dei singoli. I cuori, e i piedi, naturalmente, seguiranno senza alcuna apparente coercizione.

Eppure nessuna azione può essere compiuta se non da noi. Nessuna omissione.

La qualità delle nostre azioni deriva dalla qualità delle nostre intenzioni, dalla qualità delle nostre riflessioni, analisi, meditazioni. Sono e saranno azioni nostre, veramente “nostre”, se impariamo a coltivare la capacità di essere liberi, se alimentiamo la consapevolezza di avere delle possibilità, e sta a noi comprendere e tradurre le possibilità in azioni e realtà effettive.

Solo noi possiamo avere i nostri sogni, e gettare le fondamenta dell’azione su qualcosa di solido, e realizzare qualche cosa di autentico. Ciò che è solido, attenzione, non è qualcosa di materiale, ma la nostra capacità di volere – se la coltiviamo – e dunque, infine, la nostra capacità di essere liberi.

Occorre, per questo, rendere limpida la visione.

Gli esseri e le cose del mondo sono sotto i nostri occhi, ma la visione che ne abbiamo è condizionata dai nostri desideri, dalle paure, dalle aspettative, dalle attrazioni e dalle repulsioni. Tutto questo è parte del nostro essere uomini e donne, e costituisce in profondità la nostra maniera di entrare in relazione con l’ambiente e con gli altri, ed è parte integrante della nostra personalità. Naturalmente, se si preferisce il gelato al pistacchio, e si rifiuta quello al cioccolato, nulla cambia nella nostra vita, che queste sono inezie.

Al contrario – non è necessario fare degli esempi – inclinazioni, scelte, azioni, passività, omissioni, modi di concepire il mondo costituiscono quello che noi siamo, quello che siamo veramente. Occorre, su questo, coltivare la consapevolezza, ed essere interiormente attivi e non passivi.

Qui si radica la nostra più essenziale possibilità di essere liberi, qui si radica la nostra più concreta possibilità di essere schiavi. Schiavitù o libertà? A noi decidere.

Per farlo occorre cercare di avere e coltivare il senso del nostro “io”, avere la capacità di mettere a fuoco quello che noi siamo e vogliamo essere, ponendo l’attenzione su quel centro profondo della nostra personalità, su quel nocciolo della nostra volontà, su quel nucleo relativamente stabile che tendiamo a considerare il nostro io.

Il dono e il pacco

 

Un dono rappresenta qualcosa carico di significati per chi lo offre e per chi lo riceve. Il senso di un dono è ciò che lo caratterizza, che lo rende tale.

Sottende una comunicazione, una qualche forma di relazione tra due persone che, almeno un poco, sono in contatto, si conoscono, si comprendono.

Un dono è più di un semplice oggetto, non è semplicemente una “cosa”: una penna rimane essenzialmente uno strumento di scrittura, ma quale dono può assumere il significato implicito di un augurio (diventa un valido scrittore, auguri!), o costituire una manifestazione di affetto (penso a te…). Un anello può anche essere di materiale non raro e costoso, magari di semplice vetro, eppure ha valore per il messaggio che porta con sé.

Se il dono consiste in qualcosa di materiale, in ogni caso, entra in gioco anche la qualità della cosa stessa. Attenzione: dico chiaro che intendo la qualità, la foggia, la bellezza intrinseca della cosa, e non mi riferisco al suo prezzo sul mercato, alla quantità di denaro che equivale alla sua quotazione.

Altra cosa è un pacco. Un pacco è una cosa, una semplice cosa, una cosa muta, che non dice nulla, che non manifesta un significato apprezzabile. E’ solo una cianfrusaglia – magari anche costosa, in termini di prezzo – tra le tante, tra le troppe che spesso ingombrano le case, gli armadi, i cassetti. E’ solo una cosa povera di senso, che magari viene regalata con superficialità, o per la pressione di un qualche obbligo più o meno esplicito, meramente convenzionale: perché è la “festa della zia”; la “festa della nonna”; la “festa del papà”; la festa di dicembre con i pacchetti colorati depositati sotto l’albero.

Il tipo peggiore di “pacco”, in assoluto, è rappresentato da quegli oggetti che sono, intrinsecamente, “spazzatura”: cose nate già come spazzatura, uscite nuove di fabbrica quale immondizia pura e semplice.

Un esemplare, che rappresenta in maniera paradigmatica l’intera categoria di tali oggetti-spazzatura, è nella foto che pubblico. Ritrae la pagina di un fascicolo pubblicitario, che è stato inserito nella cassetta della posta esattamente un anno fa, autunno 2018. L’ho conservato.

Il fascicolo è di discreta fattura, carta di apprezzabile consistenza, patinata. La fotografia è di buona qualità, come la composizione. Interessante è l’ambientazione, che lascia intuire più che dire esplicitamente, anche se il messaggio è chiaro. Si tratta di una casa, una casa antica restaurata con cura, con una porta in legno massiccio, gli stipiti in pietra, i muri faccia a vista e le fughe ben tinteggiate di bianco. Una casa di qualità, una casa ricca. Uno scenario ben curato per mettere in mostra i prodotti da vendere, per ben disporre l’animo del potenziale acquirente, che si appresta a leggere le didascalie, a valutare la qualità degli oggetti offerti in vendita.

Ebbene, cosa viene offerto, e di quale qualità?

Oggetto uno, due, tre. Infine, in basso, dulcis in fundo, <<LANTERNA – effetto camino a batteria>>, altezza 27 centimetri.

Come? Dietro, in secondo piano, c’è una tipica lanterna, e dentro si vedono bene le candele accese, e il nome corrisponde pienamente alla cosa; ma questa, in primo piano, dalla struttura nera e dallo schermo rosso, non regge il confronto. La “cosa” pretende di simulare nientemeno che un autentico camino, di poter offrire, con i suoi 16 centimetri di larghezza – meno di una spanna – e con l’ausilio di una piccola batteria, l’ <<effetto>> di un camino arroventato, fiammeggiante, bruciante, schioccante, odoroso di resina, avido e ingordo di nobili essenze.

Che dire ancora. Quella cosa a forma di lanterna pare uno spreco di plastica, metallo, lampadina, batteria, scatola di cartone, magazzino, camion e gasolio per il trasporto. Infine, soprattutto, spreco imperdonabile di lavoro di mani di donne e uomini, di vita preziosa di esseri umani rinchiusi in qualche fabbrica.

Chi può avere il meschino impulso di comprare una cosa simile e, peggio, portarla a casa?

Solleviamoci subito, cambiamo orizzonte. La visione di cose misere ci spinge a pensare a cose nobili, semplicemente belle, essenzialmente buone.

Non è questione di prezzo: è questione di qualità, è questione di gusto, è questione di grazia.

E’ migliore un sano, lindo, genuino spazio vuoto.

Voglio svelare un segreto, conosciuto da migliaia di anni, noto agli uomini e alle donne intelligenti e sagge: i veri doni, gli autentici doni, i più preziosi tra i doni, sono completamente immateriali.

Il proprio tempo offerto in dono; la più fine, acuta e gentile attenzione.

Camminare

Un fienile, prati curati e falciati regolarmente, boschi che salgono per le pendici di un monte, un sentiero erboso che conduce dove i passi spingono.

Camminare per trovare se stessi, per sentire di essere, ed essere, uomini (e donne) interi ben piantati sopra ai propri piedi, ben saldi sulle gambe.

Per conoscere il mondo occorre pestarlo con i propri piedi, e sentire la fatica nei muscoli, e fiutare l’aria aperta dei campi, dei prati e dei boschi. E sedere sotto un castagno, e raccogliere i ricci carichi di frutti maturi, da arrostire sul fuoco in una sera d’autunno, e mangiarli scottandosi le dita.

Camminare con agio, con la libertà interiore e serena di chi sa sollevarsi sopra le nebbie grigie delle vie cittadine, e sciogliersi dalle pastoie delle trite questioni domestiche, senza pungolo di faccenda quotidiana.

Perché sa andare leggero come una farfalla, gentile come un passero, elevato come un’aquila sopra un panorama di vette, e laghi e foreste verdeggianti. Basta uscire dalle porte della città, e spingersi per i tratturi che menano per i campi, e avventurarsi per sentieri ombrosi che entrano nel fitto di boschetti selvatici. In un raggio di dieci chilometri si possono scoprire mondi incantati, abitati dalla volpe e dalla lepre, dalla ghiandaia e dalla gazza.

Vorrei, nei miei vagabondaggi, far ritorno a me stesso – scrive Henry David Thoreau in un piccolo libro ricco di umanità, di semplicità, di libertà, Camminare.