Nel corso di una conversazione – in riferimento ad un personaggio, ad un evento e al suo valore nel contesto della vita – un giovane commentava concludendo con enfasi: << Ma è andato in elicottero! >>. Il senso era chiaro: il fatto di andare in elicottero rappresentava un elemento rilevante, degno di considerazione, in quanto l’andare con quel mezzo specifico costituiva un valore intrinseco, aggiungeva un evidente valore alla cosa. Andare in un luogo con un elicottero pareva decisamente migliore, superiore, e dunque preferibile, che andare a piedi. Chi viaggiava in elicottero era un “Vip”, qualcosa di diverso, pareva dire il giovane con il suo commento.
Cosa ammirava quel giovane, effettivamente, in chi si sposta in elicottero? Forse la quantità di denaro a disposizione, e dunque la capacità di procurarsi cose costose, e la possibilità di riempire di oggetti case e magazzini. Forse ammirava la stessa ammirazione che suscita chi possiede molto denaro, e dunque apprezzava il plauso della folla, che innalza lodi e invidia.
Ma uno sciocco, anche se accomodato a bordo di una costosa scatola volante, diventa forse meno sciocco di quando stava con i piedi ben calcati per terra? Forse l’ammirazione si rivolgeva al fatto che il bipede in volo può spostarsi a gran velocità, a 200, a 300 chilometri orari, e dunque può coprire grandi distanze in poco tempo, e disegnare il percorso per la rotta più breve, e arrivare prima a destinazione.
Eppure, uno stolto che viaggia a 300 chilometri orari, smette per ciò stesso di essere stolto? Più modestamente, riesce almeno un poco a colmare la lacuna, ed essere un poco meno stolto di prima? La differenza tra uno stolto e un savio sarebbe, dunque, solo una questione di velocità, così che uno stupido che viaggia in aereo, poniamo, a 1.000 chilometri orari, di botto e senza sforzo diventerebbe, per magia, qualcosa di diverso.
Pare di poterlo escludere.
Un esemplare umano, rimane sempre lo stesso esemplare umano, identico identico, sia che cammini per il sentiero di montagna a 5 chilometri orari, sia che passi a 300 chilometri orari a bordo di un costoso treno ad alta velocità. O a bordo di un elicottero.
Anzi, non occorre muoversi da casa, per essere quello che si è. Ad associarsi a questa millenaria tradizione di pensiero, a quanto pare, è anche un eclettico artista, Rinus Van de Velde, che in questi giorni espone le sue opere al Kunstmuseum di Lucerna. Nel suo atelier costruisce installazioni, plastici in cartone che creano piccoli mondi paralleli entro i quali viaggiare con la fantasia, e che diventano set per i suoi film di animazione. La sua visione è racchiusa nel titolo stesso della mostra, in inglese – I’d rather stay at home – che si traduce in un – preferisco restare a casa.
L’ammirazione rivolta a mezzi meccanici di locomozione è forse solo una forma di alienazione, e si attribuisce una parte di quel valore che appartiene solo all’essere umano in quanto tale ad una cosa esterna, e si ammira il mezzo utilizzato – l’elicottero – perché è costoso, perché si sposta velocemente, perché sembra fornire un supplemento di potenza. Ma è pur sempre, e solo, una cosa, un congegno, un banale meccanismo senza vita e senza pensiero. Prima o poi finirà tra i rottami arrugginiti.
Ciò che è umano, e vivo, e capace, troppo spesso si aliena e si sottomette a ciò che è banale ferraglia, e si riduce dunque a meno di ferraglia.
Riconoscere la ferraglia ovunque si annidi, e spezzare le catene mentali fatte di ammirazione non autentica, e trovare in sé e fuori di sé ciò che effettivamente è umano, ciò che effettivamente ha valore.
Andare a piedi per misurare il mondo, andare a piedi per capire.
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La velocità annulla il pensiero. Un uomo che corre a piedi è sempre consapevole di se stesso e delle proprie forze, può continuare o fermarsi. Ma quando quell’uomo delega il potere di generare velocità ad una macchina, quando insomma si trova su un elicottero o alla guida di una Ferrari lanciata a 300 chilometri all’ora, il suo corpo non è più presente e la velocità sostituisce il pensiero. La velocità diventa ebbrezza e rimpiazza la mente. Non c’è più riflessione ma solo estasi.
Dice Kundera che “c’è un legame segreto fra lentezza e memoria, fra velocità e oblio”. Se prendiamo una situazione delle più banali, e cioè un uomo che cammina per la strada, assistiamo ad una cosa molto curiosa: per ricordare qualcosa che in quel momento gli sfugge, lui istintivamente rallenta il passo. Se, invece, quell’uomo vuole dimenticare un evento penoso appena vissuto, accelera inconsapevolmente la sua andatura, come per allontanarsene. Quindi il grado di lentezza è direttamente proporzionale all’intensità della memoria quanto il grado di velocità all’intensità dell’oblio. E’ pur vero che “un esemplare umano” rimane identico sia che cammini a piedi che viaggi a 300 chilometri orari; c’è però una sola differenza: nel primo caso è un essere pensante che esercita la memoria, nel secondo caso, non solo non pensa, ma la cosa più grave è che non vuole proprio pensare.
Un saluto.
Le sue considerazioni mettono in luce un aspetto importante: la relazione tra velocità, pensiero e memoria. Forse la velocità non annulla in toto il pensiero, ma sicuramente lo condiziona in maniera sensibile: chi viaggia a una velocità che supera una determinata soglia di sicurezza, rimuove dalla mente un semplice ed essenziale dato, e cioè la possibilità della distruzione totale e quasi istantanea della propria persona e di tutti gli occupanti di un veicolo.
Più o meno ogni dieci anni, nel territorio della sola Repubblica italiana, scompare per incidenti stradali la popolazione di una città delle dimensioni di Pordenone.
Vero quel che scrive: chi cammina o corre a piedi è effettivamente in uno stato di controllo e di consapevolezza, e genera autonomamente la propria energia e velocità, e può sempre fermarsi in tempo.
Un saluto